«I suoi genitori si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua. 42Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa. 43Ma, trascorsi i giorni, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. 44Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; 45non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme. 46Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. 47E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. 48Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». 49Ed egli rispose loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». 50Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro.51Scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore. 52E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini». (Lc 2, 41-52)
Maria e Giuseppe sono persone profondamente religiose, stretti osservanti della legge di Dio: «Compiuti i giorni della loro [di Maria e Gesù] purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore» (Lc 1, 22); «I genitori portarono [al tempio] il bambino Gesù per fare ciò che la legge prescriveva a suo riguardo» (Lc 1, 27): «Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città Nazaret» (Lc 1, 39).
Maria e Giuseppe, come ogni pio israelita, non mancano l’appuntamento col tempio, ritenuto luogo dell’incontro con Dio, mentre Gesù lo riterrà un covo di ladri (Lc 19, 46).
Maria e Giuseppe compiono un lungo e faticoso pellegrinaggio per entrare nel tempio di un dio assetato del sangue di bestie sacrificali, nella speranza di ricevere qualcosa in cambio, quando tra le braccia sorreggono il vero Tempio di Dio che non chiederà nulla per sé, ma donerà il suo sangue per la vita dell’uomo (cfr. Gv 2, 19; Mt 26, 28).
C’è un rischio latente in ogni buon cristiano, quello di avere a che fare, da una parte, con Gesù – principio della nostra libertà – e al contempo essere ancora legati alle leggi della religione, fatta di pratiche, precetti, sacrifici, obblighi, assolvimenti … Il rischio cioè di usare Gesù per arrivare al cielo, magari per mettersi in contatto col divino.
Ma Gesù non ci sta. Non è un pass, che permette di entrare e uscire – come turisti del sacro – in templi che trasudano di paganesimo.
Gesù non è mediatore tra cielo e terra, semplicemente perché lui e il Padre sono una cosa sola, e chi vede lui, vede il Padre (cfr. Gv 10, 30; 12, 45).
Gesù educa e implora la conversione dalla religione alla fede, e lo chiede anzitutto ai suoi, a quelli a lui più vicino, ai suoi genitori e in ultima analisi a ciascuno di noi.
Egli non accetta di essere portato a spasso per soddisfare i propri scrupoli religiosi, infatti non torna a casa col papà ma resta a Gerusalemme col Padre. Vuol far comprendere a sua madre, e a ciascuno di noi, che non è lui a dover seguire noi, ma siamo noi – compresa Maria – a doverci convertire a lui divenendo finalmente discepoli.
Gesù, dice il testo, dopo la festa della pasqua dei giudei, «rimase a Gerusalemme» (v. 43). Il verbo greco indica: resistere, perseverare, insistere. Chiara prefigurazione di ciò che Gesù vivrà, sempre a Gerusalemme, il venerdì santo, affinché si possa compiere la vera Pasqua.
La questione, nel cristianesimo, è poter trovare e ri-trovare oggi, fare esperienza, vivere il Cristo risorto, il Vivente. Ma per poter fare questo occorre tornare indietro, cambiare strada, e dirigerci verso la croce, ossia amare i fratelli e vivere da risorti (cfr. 1Gv 3, 14). Non sarà mai Cristo a seguire noi – e tanto meno a dover ascoltare noi – quanto noi – i suoi –, a seguire ed ascoltare lui.
I genitori procedono per la loro strada, certa, sicura, solcata chissà quante volte, pensando che il ‘loro’ figlio sia con loro, dietro a seguirli. Occorre passare dal Dio pensato al Dio esperito. Occorre passare dal camminare alla testa di Dio – come fece Pietro e che per questo fu da Gesù chiamato satana, e invitato a passare dietro – all’essere discepoli dell’Amore (cfr. Mt 16, 23)
Il testo dice letteralmente «e i suoi non lo conobbero» (v. 43) ovvero i suoi – che siamo ciascuno di noi, procediamo senza sapere-conoscere-capire-riconoscere che Cristo è con noi; procediamo nelle cose della vita, magari con il crocifisso appeso al collo a mo’ di amuleto, ignorando che la vera conoscenza di Cristo avviene solo ‘sulla croce’ (Mc 15, 39), e lo si riconosce solo allo spezzare del pane (Lc 24, 35), ovvero laddove si vive quell’amore capace di andare fino alla fine.
Quanto è facile appropriarsi di Dio, pensando che sia nostro, a nostro uso e consumo. Anche la madre, Maria, (figura del nuovo Israele, della Chiesa, di noi), non comprende chi ha con sé. Pensa che Gesù le appartenga, che sia suo. Infatti lo chiama figlio; in greco viene usato il termine ‘téknon’ che andrebbe tradotto con “figlio che io ho partorito”, termine che mai nei vangeli verrà applicato a Gesù, perché lui è solo figlio ‘hyiòs’ di Dio. Gesù infatti rimprovera la madre, il padre, ciascuno di noi dicendo: Io non sono ciò che pensate io sia; io sono sempre al di là delle vostre idee, concetti, elucubrazioni partorite dalla vostra mente. Io sono il ‘Dio con voi’ (Mt 1, 23), il ‘Dio in noi’ (Lc 17, 21) ma non il ‘vostro Dio’, da prendere e brandire come “verità” da dare sulla testa a chi pensa in modo differente, o come distributore di ‘grazie’ confuse coi vostri desideri deliranti.
Che ciascuno di noi possa ‘custodire’ la Parola dentro di sé – come Maria (v. 51b) – anche senza comprendere sino in fondo il Mistero dell’amore (v. 50), che al di là di tutto, lentamente cresce (v. 52), si dilata, diventa carne, sangue, pensiero, volontà, sino alla sua pienezza e al nostro compimento.