Una poesia tratta dall’antologia poetica ‘Lavorare stanca’ del grande poeta piemontese Cesare Pavese. Fu composta durante l’anno di confino a Brancaleone Calabro, nel gennaio del ’36. Confino per motivi politici, in quanto antifascista.
Il famosissimo incipit, non risente solo del periodo di sospensione del poeta, ma diventa chiave di lettura, interpretazione di una condizione esistenziale.
Una poesia dedicata a tutti coloro che si sentono soli, e ai quali un’altra alba è latrice solo di solitudine rinnovata: gli ammalati, i soli, gli anziani, i carcerati, i traditi nell’amore… Con l’augurio di poter alla sera, intravedere una luce recante la bella notizia di un Amore venuto a cercare, illuminare e riscaldare proprio coloro che per abitudine non s’aspettavano più nulla.
Lo steddazzu
Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno
in cui nulla accadrà. Non c’è cosa più amara
che l’inutilità. Pende stanca nel cielo
una stella verdognola, sorpresa dall’alba.
Vede il mare ancor buio e la macchia di fuoco
a cui l’uomo, per fare qualcosa, si scalda;
vede, e cade dal sonno tra le fosche montagne
dov’è un letto di neve. La lentezza dell’ora
è spietata, per chi non aspetta più nulla.
Val la pena che il sole si levi dal mare
e la lunga giornata cominci? Domani
tornerà l’alba tiepida con la diafana luce
e sarà come ieri e mai nulla accadrà.
L’uomo solo vorrebbe soltanto dormire.
Quando l’ultima stella si spegne nel cielo,
l’uomo adagio prepara la pipa e l’accende.
(9 –12 gennaio 1936)