«In seguito Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla. 12Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei. 13Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: “Non piangere!”. 14Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: “Ragazzo, dico a te, àlzati!”. 15Il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre. 16Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: “Un grande profeta è sorto tra noi”, e: “Dio ha visitato il suo popolo”. 17Questa fama di lui si diffuse per tutta quanta la Giudea e in tutta la regione circostante». (Lc 7, 11-17)
Una donna, rimasta vedova, porta alla tomba il proprio figlio morto.
Al tempo di Gesù, ad una vedova non rimaneva – come ultimo ed estremo appiglio – che il sostegno di un figlio maschio. Ora, questa donna ha perso tutto; non le rimangono che le lacrime.
Mi permetto di considerare questi due personaggi come due simboli, figure della nostra umanità.
Questa donna viveva ‘per il figlio’, infatti come detto sopra, è tutto ciò che l’era rimasto. Non ha più un motivo per vivere e per essere felice ‘in sé’. La sua felicità era indissolubilmente legata a quel figlio unico. Ora, morto lui, anche lei sta precipitando verso il regno dei morti.
E Gesù si ferma e le rivolge un’unica parola: «non piangere». È come se la invitasse ad andare oltre, a non legare la sua felicità a quella del ragazzo. Tradotto: occorre lasciar libero l’altro per essere felici noi stessi.
Possiamo morire per le troppe aspettative che nutriamo nei confronti degli altri. La vita, in ultima analisi, non risiede unicamente nella relazione con l’altro. È certamente importante, necessaria, ma non essenziale. Ciò che è necessario al vivere risiede in noi, nella nostra parte più profonda. Se non entriamo in contatto con questa sorgente interna, non illudiamoci di poterci dissetare delle persone che amiamo.
Se faccio dipendere la mia vita dall’altro, chiunque esso sia – madre, padre, figli, partner – se questo viene a mancare, verrà meno anche il mio respiro, la mia vita. Tutto crollerà, non avrà più senso nulla.
Letto in quest’ottica, questo ragazzo è stato dunque schiacciato a morte, dal peso di questa madre che viveva di attese.
Ci sono persone che da sempre vivono oppresse dall’eccessivo peso che le persone cui vogliono loro bene esercitano su di esse. Da sempre intente a corrispondere ad attese, aspettative, desideri, di genitori, educatori, datori di lavoro e amanti.
Ci si può consumare vivendo la vita come ‘prestazione’.
Per cui a questo ragazzo Gesù potrebbe avergli detto: «Accorgiti di quanta esperienza, di quanta forza, intelligenza, possibilità di esistere autonomamente si trovano in te. Tu sei ora abbastanza grande e non hai bisogno di farti portare attraverso la vita su una lettiga funebre o meglio ancora in un letto di accomodamenti e di cattive abitudini. Puoi stare da te sulle tue gambe», infatti gli dice: “Io ti dico alzati!”» (E. Drewermann), e magari chiosando con le bellissime parole di Dag Hammarskjöld, «Occorre saper prenderci cura del futuro degli altri senza farsi schiacciare dal loro presente».
Occorre insomma imparare a vivere in prima persona. Ciascuno di noi ha una sua vita personale, una forza da mettere in campo, una potenzialità pressoché infinità da far maturare.
Gesù nel Vangelo invita ad evitare di vivere rinchiusi in nidi e tane (simboli di sempre della figura materna) e di staccarsi dai padri (cfr. Mt 8, 20ss.), ossia da ogni autorità e ‘dovere’ capace di esercitare su noi un potere in grado di determinarci e dominarci.
Diventare indipendenti da tutto ciò significa in ultima analisi ritrovare il vero Dio in noi. E questo permetterà di non temere più gli uomini e neppure più i sensi di colpa, ma solo avere fiducia nel diritto ad avere una propria vita, finalmente libera e capace di volare.
Chi giungerà a vivere in questo modo, si troverà così alla porta della città di Nain, con la vita finalmente risorta e restituito al mondo degli affetti in quel giusto rapporto con coloro che ama, rapporto che non avrà più l’odore dell’angoscia e della morte.