Alcuni mesi fa, un caro amico mi fece scoprire un autore a me del tutto sconosciuto: Antonio Monda.
Classe 1962, da alcuni anni vive a New York dove insegna alla Tisch School of the Arts. Nel contempo in Italia collabora con alcune testate come La Repubblica, Vogue e RAI News 24.
Come romanziere è al suo quinto libro, tutti editi da Mondadori. Ne ho divorati tre, tra cui l’ultimo ‘L’indegno’, cui dedicherò un post a parte nelle prossime settimane.
Monda, dotato di un talento assoluto per la scrittura, possiede una cultura vastissima. Il New York Times gli ha dedicato due articoli, definendolo “un istituto di cultura raccolto in una sola persona” e “custode della gloria di New York”.
Vorrei qui soffermarmi sul suo penultimo lavoro, ‘Ota benga’, romanzo ambientato nella New York degli anni ’20 del secolo scorso. È la storia vera, anche se raccontata come romanzo, di Ota Benga appunto, un pigmeo di ventitré anni, nativo del Congo e destinato a vivere insieme a orangutan e scimpanzé in una gabbia dello zoo di New York. L’esposizione di Ota Benga nella gabbia – organizzata nel 1904 sull’onda di un’interpretazione distorta delle teorie darwiniane, secondo cui il pigmeo sarebbe l’anello di congiunzione tra l’uomo e la scimmia – ha un enorme successo e suscita al contempo violente proteste.
Arianna, la protagonista del romanzo, entra in crisi dinanzi a questa vicenda, soprattutto per il fatto che uno degli organizzatori della disumana attrazione è il suo fidanzato, e intraprende un viaggio ‘contro’ una mentalità razzista, che dominò l’America per decenni, e avallata da autorevoli personalità del mondo politico e sociale del tempo, tra cui il grande scrittore statunitense Jack London, l’autore che ha fatto commuovere generazioni con il suo ‘Zanna Bianca’. Proprio London viene citato nel libro, quando spettatore di uno storico incontro di box tra un bianco – Jeffries – e un nero – Jack Johnson – detentore del titolo, esordisce con queste parole: «A questo punto rimane soltanto una cosa: Jeffries deve spegnere quel sorriso d’oro dalla faccia di Jack Johnson. Tocca a te, Jeff, il maschio bianco deve essere salvato». Monda nella postfazione, si premura di confermare la storicità di questa frase.
La lettura del libro mi ha fatto approfondire la storia straordinaria di Ota Benga, storia che merita di essere conosciuta, ma soprattutto mi ha portato ad approfondire un fatto di cui ero appena a conoscenza, ossia cosa successe in Congo tra la fine dell’800 e l’inizio del secolo scorso.
Il Belgio, con il suo re Leopoldo II, assetato, come tante altre monarchie europee, di nuove colonie e di dominio espansionistico, si riversò nello stato del Congo perpetrandone una brutale amministrazione.
L’intento di Leopoldo fu quella di accumulare ricchezza attraverso l’esportazione di avorio e l’estrazione di caucciù dalle piante. Interi villaggi vennero così requisiti per farne luoghi di deposito e lavorazione della gomma stessa.
La dominazione belga del Congo in questi anni verrà ricordata come uno dei crimini internazionali più infamanti del XX secolo. Con la morte di 10 milioni di congolesi su un totale di 25 milioni, gli storici parlano di un vero e proprio genocidio, il primo dell’epoca moderna.
Oggi possediamo precise testimonianze storiche riguardo a questa triste pagina di storia, sfruttamento selvaggio, diffuse violazioni dei diritti umani, schiavitù e mutilazioni, eseguite queste ultime in particolare quando le produzioni della gomma non rispettavano i quantitativi richiesti. A tutto ciò si sarebbero poi aggiunte malattie come, portando alla morte più di 5000 africani nel solo villaggio di Lukolela presso il fiume Congo. Un drammatico racconto di tutto ciò è scolpito nello splendido romanzo di Joseph Conrad, Cuore di tenebra.
Chiuso il libro di Monda, e letto qualcosa sul dramma del Congo, mi son chiesto come si sarà comportata l’Italia nella sua politica coloniale in epoca fascista. E così approfondisco un po’ la cosa e mi imbatto in due nomi che non mi dicono nulla, Omar al-Mukhtar, comandante della resistenza libica in Cirenaica impiccato nel 1931, e Rodolfo Graziani, il generale fascista che guidò le operazioni militari in Libia ed Etiopia nonché uno dei peggiori criminali di guerra della storia d’Italia.
Allora approfondisco un po’ di più la storia della presenza italiana in Libia, e mi stupisco di come questa abbia conosciuto col tempo – insieme ad altre campagne coloniali del nostro Paese – una sorta di edulcorazione, contribuendo a farle finire nell’oblio.
Il colonialismo italiano viene comunemente percepito come un colonialismo “dolce”, diverso da quello delle altre potenze europee, facendo nascere così il mito degli “italiani brava gente” incapaci di fare veramente del male a qualcuno. La realtà però è diversa: la stampa europea dell’epoca considerava la colonizzazione italiana in Libia addirittura più sanguinosa di quella delle altre potenze europee e secondo Dominioni – storico che da anni si occupa dei crimini del colonialismo italiano e autore di “Lo sfascio dell’impero”, «noi italiani dimentichiamo che nel biennio 1930-31 in Libia fu perpetrato un genocidio».
Riporto di seguito uno stralcio di un articolo di Mattia Salvia, comparso il 4 febbraio scorso nel sito The Vice Channels.
«In quel periodo la Libia era formalmente una colonia, ma l’autorità italiana era limitata ai principali centri urbani della costa; il resto del Paese era in mano a gruppi ribelli. Per stroncare la ribellione, tra il 1930 e il 1931 l’intera popolazione della Cirenaica fu deportata in campi di concentramento. “In Cirenaica agivano gruppi di partigiani che attuavano tecniche di guerriglia. Lo stesso era avvenuto anche in Tripolitania, in una fase precedente, e lì la resistenza era stata stroncata con l’uso dell’aeronautica,” ha spiegato Dominioni. “In Cirenaica però era molto più difficile. Così nel 1930, Badoglio ordinò di deportare tutta la popolazione.”
E così venne fatto, creando 13 campi di concentramento nel deserto. In parallelo, l’esercito italiano utilizzò stragi, torture e crudeltà per fiaccare il morale dei ribelli.
Emblematico è il caso di Cufra, città considerata da Graziani il “centro di raccolta di tutto il fuoriuscitismo libico,” che venne bombardata a tappeto e, una volta presa, saccheggiata per tre giorni tra violenze di ogni tipo. Le atrocità documentate e riemerse grazie al lavoro di storici come Angelo Del Boca sono impressionanti e parlano di stupri, decapitazioni, evirazioni, donne incinte squartate, bambini gettati in calderoni pieni di acqua bollente, anziani a cui venivano cavati gli occhi e strappate le unghie.
Nel caso di Cufra, l’esercito italiano usò anche l’aviazione per mitragliare le colonne di ribelli in fuga. “Le bombe hanno scarso effetto perché il bersaglio è diluito,” si legge nella testimonianza di un pilota, “ma le mitragliatrici fanno sempre buona caccia […] Il gioco continua per tutta la giornata, le carovane della speranza diventano un cimitero di morti.” Anche armi chimiche come il fosgene e l’iprite, vietate dalla Società delle Nazioni nel 1925, continuarono a essere utilizzate dall’Italia in Libia fino al 1931».
L’articolo citato, esordisce così: «A metà gennaio, la stampa italiana ha dato notizia di un messaggio che il leader di al-Qaeda nel Maghreb avrebbe inviato all’agenzia di stampa mauritana al-Akhbar per commentare il raggiungimento dell’intesa sul nuovo governo della Libia. Il messaggio avrebbe contenuto minacce piuttosto particolari dirette all’Italia, tra i paesi promotori dell’intesa: “Ai nuovi invasori, nipoti di Graziani, vi morderete le mani pentendovi di essere entrati nella terra di Omar al-Mukhtar e ne uscirete umiliati.”».
La storia si dimentica facilmente, con la complicità anche di uomini che contribuiscono perché questo accada. Ma da qualche parte c’è sempre qualcuno che ricorda. E anche con una memoria di ferro.