«Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. 39Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l’altra, 40e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. 41E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. 42Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle.
43Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. 44Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, 45affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. 46Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? 47E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? 48Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste».
Il Vangelo di questa settima domenica del Tempo Ordinario è la continuazione di quello di domenica scorsa. Gesù sta parlando ai suoi, cercando d’indicare quale giustizia, se praticata, è in grado di compiere una vita. Dio si è incarnato perché gli uomini possano vivere quello stile di vita in grado di andare oltre un moralistico legalismo bloccato sul dover fare e non fare, proprio dei farisei e degli scribi. Non è la legge e la sua osservanza che salva, ma il vivere l’amore scaturito da un cuore nuovo. Per questo Gesù invita ciascuno di noi a superare il moralismo, la sterile osservanza, per farci giungere all’unica giustizia, che è quella stessa di Dio: la misericordia.
«Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio» (v. 38). E’ il massimo di giustizia cui si era giunti nella riflessione morale dell’Antico Testamento: si risponde al male con un male “proporzionato” e non eccessivo; insomma, ognuno paga secondo il danno compiuto. Dal punto di vista del diritto e dell’etica un grande passo avanti, in quanto in grado di porre un argine alla vendetta, ma non ancora capace di guarire il male perpetrato. Il colpo ricevuto, il male subìto, anche se in maniera proporzionale, viene restituito, non viene vinto.
Gesù, e tutto il Vangelo, afferma che il male non si vince con altro male, ma col bene: «Non rendete male per male, né ingiuria per ingiuria, ma, al contrario, rispondete benedicendo; poiché a questo siete stati chiamati per avere in eredità la benedizione» (1Pt 3, 9); «Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male» (Rm 12, 21); «Guardatevi dal rendere male per male ad alcuno; ma cercate sempre il bene tra voi e con tutti» (1Ts 5, 15).
Infatti, Gesù afferma: «io però vi dico» (v. 39). E qui Gesù ci lascia cinque regole d’oro per vincere il male subìto con il bene offerto.
1. «Io vi dico di non opporvi al malvagio» (v. 39). Non dice di non opporsi al male, perché questo va sempre combattuto, ma a chi compie il male. Colui che fa il male è la prima vittima del male compiuto. Per questo chi fa il male, dice Gesù, va amato ancora di più, perché vittima del suo stesso male. A noi, solitamente, accade proprio il contrario: siamo molto indulgenti col male che viene perpetrato, condannando invece chi lo compie. Gesù ama il peccatore proprio perché odia il male. Gesù dinanzi a colui che gli fa il male, si fa carico di questo male non restituendoglielo, perché tornerebbe a questi moltiplicato. Perché il male, come il bene, si moltiplica compiendolo. In qualche modo Gesù, l’Amore, ‘blocca’ la portata devastante del male, portandolo su di sé, tenendolo in sé. E proprio perché accettato e fermato in sé, lo vince distruggendolo sulla croce. Per cui l’Amore dichiarerà sempre guerra al male, ma salvando sempre chi l’ha compiuto.
2. «Se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra» (v. 39). Gesù cita un esempio per rendere concretamente ciò che ha appena spiegato. Preso uno schiaffo, naturalmente lo si restituisce, ma in questo modo il male si propaga all’infinito, raddoppiandolo. Porgigli anche l’altra. L’amore sopporta, nel senso di porta su di sé il doppio del male, impedendo così che questo torni moltiplicato sull’altro. Questa è la tolleranza nel suo significato più profondo, termine che deriva da tŏllere = portare, sopportare. Il male si vince solo col perdono. Ma ad essere tolleranti col male, ci vuole molta più forza che restituirlo in un atto di violenza. È veramente forte chi resiste al bisogno di vendetta, e non chi compie con forza il male.
3. «A chi ti vuol togliere la tunica, lascia anche il mantello» (v. 40). Anche se sei ‘nel giusto’, pur di rimanere in pace con tuo fratello, lasciagli tutto: la nudità di Gesù sulla croce è stata la nostra pace, la nostra salvezza. Siamo stati rivestiti dalla sua spogliazione. Questa è la nuova giustizia che Gesù è venuto a rendere presente. Un modo di vivere nuovo, l’unico in grado di trasmettere vita.
4. Letteralmente sarebbe: «Se uno ti angarierà ad accompagnarlo» (v. 41). In ambito romano, l’angarius è il messo del re che aveva il potere di obbligare i cittadini a portare i suoi pesi. Ogni fratello che mi si fa incontro è ‘figlio del re’, messo regale. Per cui diviene per me un dovere fraterno portare i suoi pesi: «Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo» (Gal 6, 2). Il male lo vince solo chi non lo fa.
5. A chi ti chiede dà… Il dare è sempre una vittoria sul prendere, e quindi sull’egoismo.
L’amore del prossimo (v. 43), l’amore dell’altro è una legge che si riscontra in tutte le religioni, ma addirittura anche in natura: non danneggiare quelli della medesima specie.
Con Gesù si acquisisce una giustizia superiore. L’amore non solo del prossimo, del simile, del vicino conosciuto e da cui posso ricevere anche qualcosa in cambio, ma addirittura del nemico, di chi mi ha fatto del male, dell’altro riconosciuto nella sua totale alterità. La forza vincente del cristianesimo, sin dalle origini, è stato proprio quell’amore che non fa differenze di persone, il perdono vissuto nei confronti di coloro che hanno compiuto il male. È il discorso di sopra: condannare il male, perdonare chi l’ha compiuto. Perché in questo modo il cristiano si rivela figlio di quel Dio che non ha nemici ma solo figli amati, verso cui mostra il suo unico modo di amare, ovvero la misericordia. Quel Dio che si è rivelato nel Cristo che ha subìto il male degli uomini su di sé, non restituendolo, ma portandolo sulla croce e grazie a ciò, ha potuto donare quell’amore in grado di salvare quegli stessi uomini che l’hanno ucciso.
Ma qui Gesù ci sta indicando un modo ancora più profondo di amare i nemici: pregare per loro (v. 44). Metterli nelle mani di Dio. Chi ama il nemico manifesta di essere quel figlio del Padre che ama tutti i suoi figli, al di là che siano giusti o ingiusti, malati o sani. In questo modo il figlio affida il proprio nemico a Colui cui tutto è possibile, anche il compiere la nostra impossibilità.
Vorrei proporre una breve riflessione, su un aspetto forse un po’ originale, ma credo importante per la nostra vita spirituale. Con il tema dell’amore per i nemici che possiamo incontrare nella nostra vita, si è al centro del messaggio evangelico, e non basterebbe una vita per coglierne tutta la portata.
Ma credo sia importante anche pensare ai nostri nemici interiori, quelli a cui non prestiamo abbastanza attenzione ma che possono avere, se trascurati, un potere devastante su di noi. In questo caso Gesù ci sta dicendo: «Amate i vostri nemici interiori». Prima di tutto occorre riconoscere i nemici che c’inabitano, perché quando vedremo quelli esterni comprenderemo che altro non sono che i nostri proiettati su loro. L’ostilità spesso sorge attraverso la proiezione: proietto sull’altro ciò che non accetto di me stesso rendendomelo nemico; o viceversa l’altro proietta su di me ciò che non ha accettato di se stesso. È insito costantemente nell’uomo il difendersi accusando gli altri. È qui che nasce la necessità di crearsi dei nemici.
«Egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni» (v. 45). Dobbiamo permettere che il sole dell’amore di Dio possa risplendere su tutto ciò che ci portiamo dentro (v. 45), bello o brutto, cattivo o buono che sia; sì, anche su ciò che è oscuro e minaccioso, anche sul male. Ciò che viene accettato può anche essere trasformato. E sarà trasformato in bene.
Poi Gesù parla di una “pioggia” di Dio, ovvero la benedizione, che deve cadere sempre su ciò che è giusto e ingiusto della nostra vita, col compito di ammorbidire le rigide barriere che abbiamo creato in noi tra bene e male, tra giustizia e ingiustizia. Infatti, siamo molto manichei, riteniamo di riuscire sempre a separare con esattezza in noi il giusto dall’ingiusto, il buono dal cattivo: «vuoi che andiamo a estirpare la zizzania? No, disse Gesù, lasciate che l’una e l’altro crescano assieme» (Mt 13, 30). I confini sono fluidi. La pioggia rappresenta lo spirito fecondatore di Dio che deve pervadere i nostri due elementi, ciò che è buono e ciò che è cattivo. «Bagna ciò che è arido, piega ciò che è rigido…», recita la sequenza dello Spirito santo…
Se ci lasciamo amare in questo modo, impareremo a riconciliarci – perdonarci – con tutti quegli aspetti di noi che tanto ci fanno paura e a cui vorremmo sempre dichiarare guerra. Amati in questo modo, e riconciliati con noi stessi, vinceremo anche i nemici esterni attraverso il perdono. E allora la vita diverrà una festa.
Chi ama diventa sempre più se stesso, ovvero si compie come figlio del Padre. Diventare perfetti (v. 48), vuol dire proprio maturare sino alla pienezza di sé. Figli lo siamo già per vocazione, ma occorre diventarlo in pienezza, come un seme è chiamato a divenire frutto. E si diviene pienamente figli facendosi fratelli nell’amore, vivendo come ama il Padre, ovvero nell’amore, perché lui è solo amore. Comprendiamo quindi il v. 48 che andrebbe tradotto in: «Voi dunque [se vivete da figli facendovi fratelli] diverrete compiuti come è compiuto il Padre vostro celeste».