«Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza. 25Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? 26Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? 27E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? 28E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. 29Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 30Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede? 31Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. 32Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. 33Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. 34Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena».
La questione di fondo è: a chi – o a che cosa – mi affido per avere la vita salva? Su chi – o su che cosa – gioco la mia vita per vivere in pienezza?
Gesù sprona i suoi a dare una risposta a questa domanda fondamentale.
«Non potete servire Dio e la ricchezza» (v. 24b). O da una parte o dall’altra dice Gesù, la terza via non è data. La traduzione precedente al posto di ricchezza riportava mammona, termine molto più vicino alla parola greca originaria.
Mammona è la traslitterazione del termine greco mamōnās, che a sua volta rende l’aramaico mamonà. Il termine indica un idolo in cui porre la propria fiducia, in quanto ritenuto in grado di dare certezza, sicurezza, successo e potere. È interessante che nella lingua consonantica ebraica questa parola ha le medesime consonanti di amen (mn), termine riscontrabile nella nostra liturgia, col significato di assenso e adesione: “così sia”, “è certamente così”, “ne sono certo”, “credo e mi affido a ciò che sto celebrando”.
Per cui Gesù nel nostro brano mi sta porgendo questa domanda: nella tua vita, per cosa riservi il tuo amen? A chi presti affidamento, cosa hai ritenuto in grado di assicurarti protezione, sicurezza di vita, senso e felicità? A mammona, ovvero a ciò che sei riuscito ad accumulare, alla carriera, all’apparire, ad un corpo da stringere? O riservi il tuo amen a quel Bene che ama i suoi figli alla follia, poiché l’hai riconosciuto unica fonte di ogni altro bene?
Gesù afferma che non ci si può affidare contemporaneamente ad un bene e al Bene. Gesù insiste su questo, perché molti suoi contemporanei, alquanto dediti alle cose di Dio, riuscivano ottimamente a tenere il piede in due scarpe. Erano gli scribi, i sacerdoti e i farisei, abilissimi a cantare i salmi e contare i soldi.
Ma di questa eletta schiera, in fondo ci dice il Vangelo, facciamo parte un po’ tutti. “Non si sa mai”, diciamo anche noi. Da una parte si curano con attenzione gli interessi personali, ci si pone ‘al sicuro’, perché coi tempi che corrono… Ma poi un occhio al cielo è importante tenerlo, la religione è pur sempre importante. E perciò giù di pratiche religiose: battesimi, partecipazione alle Messe, preghiere, rosari, confessioni, ecc.
La questione per Gesù è solo una: con la bocca e la ‘pratica’ crediamo in Dio, ma non permettiamo a Dio di credere in noi. Ci si ostina a fare molte cose per Dio, ma la salvezza è permettere a Dio di compiere il tutto per noi, di manifestarci il suo amore, di farci dono della sua stessa vita, di essere Padre nei nostri confronti, perché l’unico grande sogno di Dio è proprio questo: riversare il suo amore nei suoi figli. La religione è pensare di poter fare qualcosa per Dio, la fede è affidarsi all’opera di Dio in me, e quindi pura accoglienza.
Pare vi sia in giro molta voracità religiosa nel cristianesimo, ma poca esperienza di fede, esperienza dell’opera di Dio nella propria vita. Per questo Gesù insiste su questo punto: se ti affidi a mammona, non permetti a Dio di prendersi cura di te. Un vaso pieno di qualsiasi materiale, fosse anche oro, non può essere riempito. Se hai già il tuo piccolo idolo a cui prostrarti e a cui dare il tuo sangue, non potrai mai sperimentare l’amore di un Padre che dà il proprio sangue per amor tuo. La nostra unica ricchezza sarà dunque la nostra povertà, il nostro vuoto interiore, perché in questo sperimenteremo chi è veramente quel Dio che viene in aiuto a chi ne ha più bisogno. La prima beatitudine, «beati i poveri» (Mt 5, 1), sottolinea proprio questo: quando non avrai più nessuna sicurezza, affetto, oggetto a cui aggrapparti e da cui sperare vita, solo allora proverai cosa vuol dire ricevere vita dal Vivente.
Gesù nel nostro brano vuole portarci a considerare quale rapporto abbiamo con i beni, e prende in esame quelli fondamentali: cibo – bevanda – e vestito (v. 25), che divengono qui simbolo della vita materiale, concreta: dal come li gestiamo, dipende il compimento o il fallimento della nostra storia. Se ci agitiamo molto per queste cose, per quanto necessarie, è perché fondamentalmente non ci fidiamo di Colui che è il cibo, la bevanda e il vestito per i suoi figli, e non possiamo di conseguenza sperimentarlo per ciò che è.
«La mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda» (Gv 6, 55);
«Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo» (Gal 3, 26s.).
Per Gesù esiste dunque un problema fondamentale: come gestire i propri beni. Una cosa è certa, per avere la vita non bisogna vivere l’accumulo, ma il dono. Tutto il Vangelo è continua memoria che l’accumulo fa morire, soffoca l’esistenza. Il possesso c’impossessa; illudendoci di essere padroni, viviamo da schiavi.
Dio desidera solo figli liberi, grandi e potenti in quanto capaci di donare, a somiglianza del Padre che è solo dono. Per questo vi sono solo due possibilità di relazionarci con i beni: o come figli, o come singole individualità. Se li tratto da figlio, vuol dire che riconosco tutto come dono di un Padre che pensa a me, che mi ama, che non mi fa mancare ciò che è necessario alla mia felicità. In questo modo posso vivere in maniera libera. Smetto cioè di essere impossessato dalle cose. Posso permettermi il lusso di non far dipendere la mia vita dagli oggetti, per quanto necessari come il cibo, l’acqua e il vestito. «E disse loro: “Guardatevi e tenetevi lontano da ogni avidità, perché anche se uno è nell’abbondanza la sua vita non dipende dai suoi beni”» (Lc 12, 15). Il rapporto con Dio mi salva dalla tremenda possibilità di considerare le cose come divine e infinite, e di dover dipendere da esse: la vita non dipende dai beni…
Il problema di fondo è che viviamo da ingannati, ovvero crediamo fermamente che la vita coincida con l’avere, per cui va da sé il pensare che più riuscirò a possedere migliore sarà il mio vivere. Ma in tutto questo c’è solo un problema, se il mio respirare consistesse solo nell’introdurre aria nei polmoni, non avrei un più di vita, bensì perderei anche quella che ho.
Rapportarci con i beni del mondo da figli e riconoscere tutto come dono. In ciò risiede la vita. Accolgo tutto, ringrazio di tutto, ovvero faccio eucaristia in tutto: «State sempre lieti, pregate incessantemente, in ogni cosa rendete grazie; questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi» (1Ts 5, 18). Fare eucaristia vuol dire appunto ricevere tutto, trasformare attraverso il lavoro il dono ricevuto, ma soprattutto ridonarlo ai fratelli. Ricevere – ringraziare – donare, sono i tre verbi fondamentali dell’eucaristia: «prese il pane, rese grazie, lo diede si suoi discepoli». In ciò consiste la vita. Questo è il modo per giocarci l’esistenza. Tutto riceviamo, di tutto ringraziamo, tutto doniamo.
Se non si vive la gestione dei beni in questo modo, ovvero facendone eucaristia, la si vivrà nell’affanno, o preoccupazione termine che nel nostro brano torna sei volte – numero imperfetto per antonomasia nel Vangelo – per ricordarci che per quanto ci si possa dar da fare, la pienezza di vita, la felicità non potrà mai essere il salario di tanta preoccupazione, o per usare un termine attuale, dello stress, ma solo dono del Vivente, del Padre che si preoccupa dei suoi figli.
Ovviamente il lavoro, l’impegno, la trasformazione del dono ricevuto in vita concreta è doveroso; in questo modo si diviene collaboratori di Dio all’opera della creazione. Egli non ci chiama all’inerzia, infatti fin dall’origine ci ha donato tutto perché tutto venisse trasformato: «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gn 2, 15).
L’occupazione è per la vita, la pre-occupazione è per la morte, infatti preoccuparsi etimologicamente significa frantumarsi in infinite parti; vuol dire disperdersi, lacerarsi, sgretolarsi, anticipando così la morte.
Al v. 33 Gesù ci ricorda che non dobbiamo cercare prima di tutto il cibo, la bevanda e il vestito, ma il Regno di Dio, ovvero comprendere e dunque accettare (il ‘cercate’ di questo versetto è in realtà un accogliere, perché il Regno ci è già dato, è già presente, cfr. Lc 17, 21) finalmente chi è Dio per me: Padre che si fa dono attraverso il Figlio. Se nel mio quotidiano giungerò a sapermi figlio di un Dio Amore, se giungerò a fare esperienza che Dio è solo Amore che desidera donarsi a me suo figlio per donarmi la felicità piena, se farò esperienza della paternità di Dio per me (questo è il Regno di Dio: l’azione di Dio nel mondo) allora tutto ciò che è essenziale per la mia vita, lo scoprirò come dono e non come oggetto di conquista.
Scoperto che la vita consiste in un accogliere il dono, allora mi muoverò a vivere anche la giustizia: «cercate invece, anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia». Ovvero, scopertici oggetto di amore, i doni che si son ricevuti vanno condivisi. Si diventa giusti per via di condivisione e non di accumulo. Se vivo ricevendo tutto, e condividendo tutto – facendo eucaristia come si diceva sopra – allora la mia vita si moltiplica, diviene sovrabbondante. Ovvero ‘eterna’: «queste cose vi saranno date in aggiunta».
«Fate attenzione a quello che udite: Con la stessa misura con la quale misurate, sarete misurati anche voi; anzi vi sarà dato di più» (Mc 4, 24). Donando all’altro, io ricevo la medesima misura, anzi molto di più.
L’amore – e dunque la vita – si moltiplica solo condividendolo.