«Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente. 8Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. 9Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male […].
3.1 Così furono portati a compimento il cielo e la terra e tutte le loro schiere. 2Dio, nel settimo giorno, portò a compimento il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro che aveva fatto. 3Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli aveva fatto creando.
4Queste sono le origini del cielo e della terra, quando vennero creati.
Nel giorno in cui il Signore Dio fece la terra e il cielo 5nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata, perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra e non c’era uomo che lavorasse il suolo, 6ma una polla d’acqua sgorgava dalla terra e irrigava tutto il suolo. 7Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente»
I Padri della Chiesa, affermavano che il modo migliore per commentare un passo della Bibbia è utilizzare la Bibbia stessa. Per questo motivo propongo, in questa prima domenica di quaresima, di utilizzare come commento al passo del Vangelo odierno (le tentazioni di Gesù, Mt 4, 1-11), la prima lettura che ci viene offerta nella liturgia, ovvero Gn 2, 7-9; 3, 1-7.
L’autore di Genesi (in realtà uno degli autori del Genesi, dato che questo libro conosce almeno tre diverse tradizioni che intrecciandosi hanno dato origine al testo che conosciamo) attraverso un racconto che possiamo definire mitologico, immagina Dio che crea l’uomo plasmandolo con della polvere del suolo e insufflandoci dentro un alito di vita (v. 7). Ecco cos’è l’uomo: polvere e fango. Splendido! Perché questo vuol dire che da sempre sono un essere segnato dalla fragilità, dall’inconsistenza, dalla friabilità. Io sono questo, polvere del suolo, creatura segnata indelebilmente dal limite. Tutto questo è la mia natura: sono naturalmente fragile e limitato. Per cui nessun peccato originale all’inizio della mia storia! Non c’è stato un guasto di produzione all’origine di tutto. E io non sto pagando le conseguenze di un’infrazione infinita.
Basterebbe questo a riconciliarci con la nostra vita, bandendo inutili sensi di colpa e continue recriminazioni rivolte ad improbabili progenitori, rei di aver compiuto un tremendo ‘peccato’, il cui scotto continua ad essere pagato da ignari bambini innocenti.
Il testo afferma che in questo essere costituito di polvere, Dio insuffla un alito di vita (in ebraico neshamah). Bando agli equivoci: questo spirito, non è assolutamente quel che definiamo con anima, concetto greco del tutto estraneo al mondo semitico e quindi al nostro autore. Potremmo definire questo alito di vita come: autocoscienza. O se vogliamo potere di introspezione, capacità di conoscersi, di dire io sono, e di aprirsi verso l’altro da sé. Capacità di trascendersi dunque e d’inabissarsi nel totalmente Altro, attitudine che possiede solo l’uomo. In definitiva, la neshamah è quel qualcosa in grado di renderci infinitamente superiori a tutto, anche alle cose più grandi della creazione. Capacità di fissare gli occhi non solo sulla terra, e neppure nello sguardo di un altro, ma negli occhi stessi di Dio.
È vero, siamo fragili, segnati dal limite, portati a cadere per la nostra innata instabilità, ma al contempo siamo capaci di ‘sentire’ in grande, di avere desideri infiniti, di trascendere le barriere del limite per fare esperienza del cielo stesso per cui il nostro cuore è fatto. L’uomo è un fuscello, ma ben radicato nel fango e capace di contemplare il cielo.
Non solo, grazie a questa neshamah, ora l’uomo può permettersi di diventare pienamente se stesso. Siamo compiti da realizzare. Desiderati dall’Amore, ora possiamo compierci nell’amore. È questo il significato dei versetti che vengono dopo.
«Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato» (v. 8). L’Amore ci pone in un terreno atto a farci fiorire, perché ogni cuore necessita di un terreno dove entrare e lì spendersi, al fine di poter germogliare (cfr. Gv 12, 12). Ognuno ha – o desidererebbe avere – un suo terreno dove poter dare il meglio di sé, dove poter fiorire in pienezza. Luogo dove il cuore possa germogliare.
Questo terreno dice il testo è posto ad oriente (v. 8). Perché ad oriente? Perché ad oriente sorge il sole, e quindi la vita; col volto ri-volto ad oriente si ha la possibilità di orientarsi. Se si perde l’Oriente si rimane dis-orientati, si smarrisce il punto di riferimento, il Sole, l’amore che tutto illumina e riscalda. Lontani dall’Amore, nel quale possiamo fiorire, proveremo solo gelo e freddo.
Dio l’Amante, ci ha posto nel mondo, affinché attraverso l’amore potessimo compierci il cuore, potessimo diventare noi stessi si è detto. È a questo punto che nasce il dramma della libertà. Perché l’amore lascia liberi, liberi di scegliere, liberi di giocarci le nostre tre relazioni fondamentali – con noi stessi, l’altro e l’Alto – come meglio crediamo. Ma la libertà è qualcosa di delicatissimo, di complesso, un rischio altissimo insomma, ma che necessita di essere vissuto, altrimenti si rimane schiavi, rinunciando di fatto a vivere. E noi sappiamo che solo il bene è in grado di compiere l’uomo. Solo quella libertà in grado di scegliere e di attuare il bene può farci diventare pienamente noi stessi.
Per questo la vita diventa – ed è necessario che diventi – tentazione, ossia scelta compiuta dell’uomo libero. Chi non è tentato, in ultima analisi, è condannato a non scegliere mai.
“Chi non avrà conosciuto la tentazione non potrà entrare nel Regno dei cieli, togli la tentazione e nessuno si salverà”, diceva Antonio Abate.
Essere tentati, vuol dire proprio essere chiamati a scegliere, a decidere su come giocarsi la propria vita. Decidersi come diventare uomini: o come figli servendo i fratelli, o come padroni servendosi dei fratelli. La tentazione del serpente in Gn 3 e quella di satana nel Vangelo di oggi, ha proprio questo scopo: spingere a compiere la decisione fondamentale del vivere, quale strada e strategia di vita intraprendere.
E le strade possibili son solo due: o quella dell’amore, della relazione, giocata sulla memoria che tutto è dono ricevuto e in quanto tale va ridonato, oppure attraverso la via del potere, dell’avere e del successo.
L’albero cui si parla nel nostro brano, funge proprio da ‘memoria dei’: ricorda, ovvero riconduce nel cuore, la verità che la vita è dono, ed è fatta per essere donata. Ma ci sarà sempre quella parte di male, che tutti ci portiamo dentro (e che non è il diavolo!) che ci farà distorcere lo sguardo sulla realtà, ingannandoci, facendoci così compiere scelte a favore di realtà segnate dall’ombra confondendole col bene e la luce.
Noi non siamo dannati, ma solo ingannati! Sulla vita, su noi stessi, e su Dio.
Occorre guarire da questo inganno, cioè dal pensare che siano le cose, gli oggetti, il potere, il successo, la ‘mela’ a donarci la felicità! Guarire dall’inganno di pensare che occorra strappare tutto, fagocitare tutto – comprese le persone – per poter vivere; che occorra essere ladri dell’amore per poterci compiere.
Ma il Vangelo, la buona notizia è giunta per vincere e guarire questo nostro inganno.
È giunto il tempo in cui all’uomo è stato concesso di strappare un nuovo frutto da un nuovo albero, e finalmente di masticarlo e di distruggerlo con i propri denti facendolo divenire nostro sangue e nostra carne, vita e vittoria sulla morte, sul nostro inganno e sul nostro egoismo. È il frutto buono che pende dall’albero della croce, Cristo, l’amore che il Padre ha donato perché gli uomini potessero nutrirsene ed essere così in grado di vivere da figli, imbevendosi dell’amore e giungendo così alla felicità facendosi fratelli.
Finalmente, vivendo in questo modo è possibile fare eucaristia in ogni cosa, come dice Paolo, ovvero ringraziare di tutto.
Eva, staccando quel frutto, si è scordata del donatore; s’è dimenticata che la vita risiede in una relazione, che il principio della vita risiede nel ricevere e nel riceversi come dono e non nel possedere, nell’inglobare. Quando la creazione, quando i doni non faranno più memoria del donatore, in quel preciso istante inizia la discesa agli inferi. La morte. Quando la vita non è più eucaristica, non è più rendimento di grazie e diventa possesso, è una vita fine a se stessa. Quando le cose, le relazioni, le persone, la creazione non sono più realtà simboliche, ovvero un rimando al Creatore, ad una realtà trascendente, per noi comincia il declino, è finita. Ormai Eva pensa che la vita risieda in se stessa.
Se l’uomo diventa fonte della vita, non si percepisce più come scaturito dalla Sua mano, e comincia a prosciugarsi. La vera morte dell’uomo è il percepirsi mortale, il sapersi ferito a morte, consapevole che da questa ferita mortale fuoriesce quel sangue che è la vita, come la donna emorroissa di Mc 5, 25ss.
La vera morte per l’uomo sarà quindi il costatare che la propria vita va lentamente a consumarsi nel nulla, a perdersi nel non senso, e che ogni gesto compiuto, ogni parola pronunciata non lascia più alcuna traccia.
«Se Tu non vieni a ricomporre l’uomo, restiamo al sole disseccate spoglie che vento a polvere confonde» (G. Nogara).