Crescere ha il medesimo etimo di creare.
Noi non siamo stati creati una volta per tutte; noi siamo in continua creazione. In crescita appunto.
Siamo venuti alla luce, siamo nati, viviamo, ma questo non vuol dire ancora nulla. Per vivere veramente occorre rinascere. Occorre nascere due volte per diventare pienamente noi stessi.
Crescere è perciò un lento e continuo cammino di ri-creazione.
Crescere ha assonanza col temine ascendere.
La vita è perciò un lento esercizio di ascesi. Si è chiamati a vivere come l’asceta. Bella parola derivante da askètes: colui che fa esercizi, che si esercita. Si cresce, si ascende verso il compimento di sé, esercitandosi a vivere, ma solo in un determinato modo. Perché non tutti i modi di vivere fanno vivere. C’è una modalità che compie, trasforma, trasfigura, e altre che sfigurano.
Solo l’amore, la modalità dell’amore compie e porta a compimento. Ogni altra fa regredire, fa implodere. È fallimento.
«Noi non discendiamo dagli animali, ma ascendiamo dagli animali» (A. Fogazzaro). Crescere è dunque passare dall’animalità all’umanità. Non si nasce uomini, lo si diventa, crescendo in umanità. Chi tradisce l’umano, rimane bestiale.
Siamo venuti alla luce come semi; la vita che ci è stata donata, è il tempo, sufficiente e necessario perché si possa giungere a diventare albero, fiore, grano, insomma ciò che la natura – o se vogliamo Dio – ha inscritto nella nostra verità più profonda.
Crescere è dunque il costatare il passaggio dalla potenzialità all’atto della nostra verità: sbocciare.
Ma il seme – come per un misterioso paradosso – per poter deflagrare in tutta la sua potenzialità, necessita di essere posto in un solco, che in latino chiamasi lira, e lì morire. Una vita che rinuncia a seguire questa logica naturale, di immergersi nel solco buio e umido della terra, è una vita de-lirante, cioè giocata fuori dal solco, e dunque folle, sterile, infeconda. Ciò che non muore non potrà mai conoscere vita.
Lo ebbe a dire già Gesù di Nazaret: Il chicco di grano se non muore rimane solo senza portare frutto (cfr. Gv 14, 24); E noi sappiamo, per esperienza, che l’amore riporta la vittoria solo laddove viene sconfitto.
Crescere è perciò, paradossalmente, atto di rinuncia, di abbandono, di spogliazione: un morire nell’amore.
Crescere è costruire se stessi, una splendida opera d’arte, un costruire la propria statua, come dicevano gli antichi.
Ma una statua cresce nella misura in cui si toglie, si asporta, si elimina il marmo dal blocca da cui è tratta. La statua si dà per sottrazione, non per addizione. I prigioni di Michelangelo ci suggeriscono qualcosa a riguardo…
Crescere dunque, e siamo ancora nel paradosso, è diminuire, rinunciare al proprio ego, perché il vero Sé possa finalmente affermarsi; occorre togliere tutta la materia di scarto perché la bellezza possa manifestarsi.
E ancora Cristo è lì a ricordarci che crescere nell’amore è l’unico modo per vincere la morte. Se non si cresce in umanità, si è già morti, morti viventi ma pur sempre morti e incapaci dunque di oltrepassare l’ultimo limite della nostra storia.