OMELIA SS Corpo e Sangue di Cristo anno A

«Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
52Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». 53Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. 54Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. 55Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. 56Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. 57Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. 58Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

«Io sono il pane vivo» (v. 51). Letteralmente andrebbe reso con «Io sono il pane di vita».

Il pane è ciò che assicura la vita. Ma l’uomo da sempre sa che, per quanto necessario, il solo pane non basta. Questo assicura l’esistenza, ma vivere veramente è un’altra cosa.
Gesù si sta rivolgendo a un uditorio di giudei, i quali sanno bene che la vita vera sta ‘oltre’ il pane da mangiare. Il problema dell’uomo consiste proprio nella grande illusione di dover mangiar di tutto – oggetti, relazioni, corpi – per avere la sensazione di vivere almeno un po’.
Nell’Antico Testamento Dio disse che ciò che è in grado di assicurare pienezza di vita è la Parola di Dio, per questo invitò a mangiare la Parola stessa: «Figlio dell’uomo, mangia ciò che ti sta davanti, mangia questo rotolo, poi va’ e parla alla casa d’Israele». 2Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo, 3dicendomi: «Figlio dell’uomo, nutri il tuo ventre e riempi le tue viscere con questo rotolo che ti porgo». Io lo mangiai: fu per la mia bocca dolce come il miele» (Ez 3, 1-3).

Ciò che dà la vita è la Parola di Dio, che va mangiata, masticata, gustata, assimilata perché divenga sempre più carne della mia carne e sangue del mio sangue.
Gesù riprende questa grande verità: per avere vita in pienezza (‘eterna’ nel Vangelo) occorre nutrirsi della Parola, del Vangelo. E porta il discorso alle estreme conseguenze: «Io sono la Parola di vita che va mangiata. Chi mangia di me vivrà di una vita che non conoscerà mai la morte». Chi vive del Vangelo – che non è altro che la narrazione dell’Amore di Dio per me –  non conoscerà la morte, perché l’amore è più forte della morte.

Questo pane Gesù dice che ce lo darà più avanti: «il pane che io darò» (v. 51b). Quando? Sulla croce. È qui che questo pane cioè la sua stessa vita, carne viene donata a me per amore, che se accolta, assimilata mi permette di vivere di una vita qualitativamente così grande da poter vincere anche la morte. Proprio come la sua. È questione di assimilare – per poterne vivere – la sua stessa umanità, quella di uomo completo, compiuto: amato infinitamente dal Padre e amore totale per i fratelli.
Nel nostro brano torna più volte il verbo mangiare. Questo sostituisce il ‘credere’ così caro al Vangelo di Giovanni: «Se non credete nel Figlio dell’uomo, non avete in voi la vita».
Questo vuol dire credere: assimilare la sua carne, la sua umanità, il suo stile di vita, sino a divenire simili a lui. Ma stiamo attenti, non è un nostro sforzo quello di assimilarci a lui, ma è lui che ci unisce a sé, che fa della sua intelligenza la mia intelligenza, della sua volontà la mia volontà, del suo pensiero il mio pensiero… È sempre l’Amore che attrae a sé l’amato. Credere, aver fede, mangiare è un lasciarsi mangiare, un permettere all’Amore di amarmi e di credere in me.

La Chiesa crede che tutto questo accada ora nel mistero eucaristico. In quel momento «Non siamo noi che mangiamo l’Eucaristia, ma è l’Eucaristia ad assimilarci a sé» (G. Dossetti). Il mio cuore è trasformato dall’umanità di Cristo che mi unisce all’amore del Padre facendomi capace di amare i fratelli. Vivo come vive Cristo. Perché «non son più io che vivo ma è Cristo che vive in me» (Gal 2, 20).

In questo gioco di amore, sperimento di vivere da risorto, proprio come Cristo perché chi ama ha già vinto la morte: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna [quella vita in grado di vincere anche la morte]» (v. 54). Già adesso, già nel momento presente egli «è passato dalla morte alla vita perché ama i fratelli» (cfr. 1Gv 3, 14).

Vivere in questo modo ci fa sperimentare dove stiamo di casa: dimoriamo in Dio stesso. Infatti il ‘rimanere’ del v. 56 andrebbe tradotto con dimorare, abitare verbo tanto caro a Giovanni: «Signore dove abiti?» (Gv 1, 38).
L’amore abita dove è amato.
Noi siamo abitazione di Dio se permettiamo a Dio di prendere dimora in noi.

Facendo eucaristia, mangiando la sua carne e il suo sangue, ovvero permettendo sempre più alla sua vita di prendere possesso della mia e di conseguenza di farmi eucaristia per i fratelli, e quindi di dare in cibo la mia stessa vita per la vita loro, allora io sarò di casa nella casa dell’amore.
Vivrò nascosto nel suo mistero. «Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio!» (Col 3, 3).

«La nostra vita è nascosta con Cristo in Dio: sì, noi siamo già come a casa nostra, al cuore stesso del nostro esilio. La nostra esistenza visibile corre via, come un sogno, o come una maledizione; dominata dai demoni, impigliata nelle crisi, sommersa dalla colpa, questa vita è una vita morta. Ma tutto ciò è annullato da Dio. Poiché è preda della morte, la nostra vita viene strappata da Dio alla morte; poiché è perduta, viene salvata da Dio. […] Così com’è, questa nostra vita, egli la innalza fino al suo maestoso nascondimento; così com’è, la glorifica facendola entrare nella sua gloria incommensurabile. La nostra esistenza visibile, con le sue gioie e i suoi successi, con le sue pene, le sue preoccupazioni, le sue disobbedienze, ecco è là, santa, innocente e perfetta, grazie a Gesù Cristo, in quel mondo nascosto di Dio, dinanzi agli occhi dell’Onnipotente, ora, domani, e per tutta l’eternità. E non c’è lacrima che sia pianta invano, non v’è sospiro che sia trascurato, non v’è dolore che sia disdegnato, non v’è gioia che vada perduta» (Dietrich Bonhoeffer, Predica, IV domenica dopo la Trinità, 19 giugno 1932).