«Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». 14Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti». 15Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». 16Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». 17E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. 18E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa».
Pietro e Paolo.
Due colossi della Chiesa, due personaggi straordinari. Sul primo Gesù ha edificato la sua Chiesa (Mt 16, 18), al secondo ha affidato l’incarico di testimoniarlo sino ai confini della terra (At 3, 15).
Due uomini che sono arrivati a donare la vita per il Dio di Gesù Cristo. Due santi.
Ma occorre stare attenti che queste due figure, cui oggi la Chiesa c’invita a guardare, non divengano pretesto di frustrazione spirituale, ovvero quel sentimento che guardando a modelli eccelsi fa rimanere con un retrogusto amaro nel cuore dicendo: “Sì loro, ma io…”.
Occorre avvicinarsi e contemplare le opere di Dio da vicino. Perché di opera di Dio si tratta.
La festa dei santi Pietro e Paolo, ci invita a comprendere in cosa consiste la santità cristiana. Purtroppo tendiamo a confonderla con la realizzazione della propria perfezione morale attraverso il mettere in atto delle virtù naturali.
Ma il discepolo di Gesù non è chiamato alla ‘virtù’, all’integrità (purezza) dell’anima, ma appunto alla santità, intesa nella sua genuina accezione, quella che nasce dal fango e dalle tenebre e non quella immaginata come perfezionismo morale fondata sui propri sforzi, sulla generosità e una semplice bontà umana.
Pietro e Paolo sono stati due uomini deboli, segnati da forti limiti personali, profondamente feriti dalla loro storia e dal loro carattere.
Paolo, il perfetto uomo religioso, il fariseo irreprensibile (cfr. Fil 3, 5s.), in nome del suo Dio si rese complice di minacce e stragi contro i cristiani (At 9, 1) verso i quali provò da subito un’ostile aggressività e un incontenibile odio; «Saulo intanto cercava di distruggere la Chiesa: entrava nelle case, prendeva uomini e donne e li faceva mettere in carcere» (At 8, 3).
Uno zelotes insomma, attaccato alla religione dei padri (Gal 1,14) che sentì il dovere imperioso di perseguitare la nuova dottrina e i suoi seguaci con grande passione (Fil 3,6). Gli Atti degli Apostoli ci ricordano che dinanzi alla lapidazione di Stefano, seguace di Cristo, egli è lì a contemplare la scena approvando ciò che stava accadendo (cfr. At 8, 1a).
Dopo la cosiddetta conversione, Paolo manterrà comunque un carattere difficile; intransigente, duro, non portato ad alcun compromesso. Gli Atti narrano ancora come in presenza di tutti Paolo accuserà Pietro di ipocrisia dicendogli: “Se tu, che sei giudeo, vivi come i pagani e non al modo dei giudei, come puoi costringere i pagani a vivere al modo dei giudei?“ (Gal 2,11-14). Era un’accusa forte fatta al primo degli apostoli: egli distorceva il Vangelo e Paolo, nella sua ferrea intransigenza non poteva accettarlo.
Romperà anche con Barnaba, un uomo di Dio che fece di tutto per introdurre Paolo nella Chiesa nascente, costituita da cristiani pieni di paura che si domandavano come quella disgrazia d’uomo potesse ora diventare discepolo di Cristo. Eppure nel secondo viaggio missionario Paolo si rifiutò di partire con l’amico Barnaba se questi non avesse lasciato a terra Giovanni-Marco (il futuro evangelista!), che tanto aveva deluso Paolo nel corso della prima avventura missionaria.
Pietro, da parte sua, è l’uomo tutto passione, primario di carattere, capace di grandi entusiasmi; come non ricordare le frasi d’effetto che amava pronunciare: «Anche se dovessi morire con te, io non ti rinnegherò» (Mt 26, 35); «Se tutti si scandalizzeranno di te, io non mi scandalizzerò mai» (Mt 26, 33).
Sempre pronto a difendere il suo amico Gesù, anche con la violenza: «Allora Simon Pietro, che aveva una spada, la trasse fuori, colpì il servo del sommo sacerdote e gli tagliò l’orecchio destro. Quel servo si chiamava Malco» (Gv 18, 10).
Ma un coraggio facile a disintegrarsi dinanzi ad una piccola serva nel cortile del sommo sacerdote. Rinnegherà freddamente il suo amato Gesù al calore di un falò; fuggirà dalla compagnia, come tutti gli altri, accontentandosi di vedere l’ignominiosa fine dell’amico ‘da lontano’ (Mc 14, 54).
Due dis-graziati insomma, ovvero dei senza-grazia, i quali hanno intentato il volo verso il cielo per conquistarsi l’Amore, ma senza comprendere il dovere di essere previamente raggiunti dal dono dell’amore da parte dell’Amato. Malattia di sempre nella vita dello spirito: voler raggiungere senza prima essere raggiunti.
«Non possiamo fare neppure un passo verso il cielo. / La direzione verticale è sbarrata. / Ma se noi gridiamo dal basso / Dio scende e ci porta su» (Simone Weil).
Entrambi hanno provato il dolore e il dramma della caduta, del limite e della fragilità ma al contempo il gratuito miracolo della salvezza. Due disgraziati che grazie all’abissale vuoto sperimentato interiormente, han potuto farsi colmare dalla grazia e perciò provare cosa vuol dire essere salvati. La santità, infatti, è infantile stupore dell’azione di Dio che ci viene a raggiungere nel nostro punto più basso.
«Chiunque può metter mano alla santità a partire da dove si trova, a partire dalla più sordida bassezza. Dio può scendere nel fango per fare di qualcuno un santo» (Daniel Daigneault)
Ecco dove risiede la santità dei santi Pietro e Paolo, nella loro miseria visitata dalla misericordia, nel loro vuoto colmato dalla pienezza, nella loro povertà riconosciuta come ricchezza e unica possibile beatitudine: «Beati i poveri in spirito» (Mt 5, 3).
Il vero santo, il giusto, è il povero privato di tutto, che riconosce la sua miseria e finitudine, e grida in fondo alla fossa, dal basso della scala. «Quando Dio decide di farsi conoscere, ci fa scendere gradino dopo gradino nell’abisso della nostra miseria e del nostro peccato. Per farlo ci scombussola e ci disorienta, e ci riconduce all’essenzialità, ai nostri limiti e alle nostre debolezze» (Jean Lafrance).
«È una gioia sentirsi deboli e miserabili, perché più lo riconosciamo umilmente, attendendo tutto gratuitamente dal buon Dio senza alcuno nostro merito, più Egli si abbassa per colmarci dei suoi doni» (Teresa di Lisieux).
La pedagogia del Vangelo appare in questo modo sconcertante.
Dio si rivela non ai forti e agli intelligenti, ma ai deboli e ai fragili: non ai virtuosi e ai farisei, ma ai peccatori, ai pubblicani e alle prostitute; non ai potenti di questo mondo, ma ai bambini disarmati.
«Più un vaso è vuoto, più lo si riempie di liquido; più l’anima è vuota per ricevere, più Gesù la gratifica coi suoi doni» (Marthe Robin).
Non è questione di costruirci perfetti tramite la virtù per conquistarci il paradiso, ma accogliere il paradiso – la presenza del Dio amore – qui ed ora nel mio stato attuale: «Non entriamo in Paradiso domani, o dopodomani, o fra dieci anni: vi entriamo oggi, quando siamo poveri e crocifissi» (Léon Bloy). «Oggi sarai con me in Paradiso», dice Gesù al delinquente accanto a sé in croce (cfr. Lc 23, 43).
Paolo alla fine comprenderà tutto questo, e sarà la salvezza, in quanto questa non è opera nostra, ma opera di Dio a favore nostro. Egli ha compreso ad un certo punto, che scalare il cielo non conduceva da nessuna parte. Splendida l’immagine della conversione di Saulo in un quadro del Caravaggio: un uomo cieco a terra, con le braccia spalancate verso l’alto ad accogliere – come assetato di vita – la Luce proveniente da un altrove.
In 2Cor 12, 7ss., Paolo prega il Signore che lo liberi da una fantomatica spina nella carne. Non sappiamo cosa potesse essere: una malattia, una fragilità, un peccato reiterato? Paolo più volte prega Dio che gli tolga questa ombra nella sua vita, consapevole che qualora non ne portasse più il peso certamente avrebbe servito meglio il Signore, e sarebbe stato più ben accetto agli occhi suoi. E qui Dio interviene sconvolgendo ogni mentalità religiosa, dicendogli di non preoccuparsi: «Ti basta la mia grazia. La forza si manifesta pienamente nella debolezza» (v. 9). Affermando che ciò che conta nella nostra breve vita non è il nitore etico, l’irreprensibilità, la purezza del corpo e dell’anima ma l’azione di Dio nella sua creatura, la sua gloria, non il mio farcela a tutti i costi! Santità è che si manifesti lui, che risplenda la sua gloria, che io sperimenti la sua grandezza, questo è ciò che conta, e non tanto la contabilità delle mie miserie.
Dio solo basta (Teresa D’Avila).
Una volta che Paolo comprese questo, allora proruppe in quel grido liberatorio che è uno dei passi più alti e belli del Nuovo Testamento: «Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze perché dimori in me la potenza [la gloria] di Cristo » (2Cor 12, 9b). E ancora: «Infatti quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12, 10).
A Pietro Gesù dice: «Tu sei roccia». Ma noi sappiamo che solo Dio è la roccia. Allora perché questa affermazione? Proprio perché Pietro facendo esperienza della sua incapacità, nel momento in cui egli scopre che la carne e il sangue non contano nulla nella conquista del cielo, allora proprio in quel momento può manifestarsi un Altro. Là dove c’è questa debolezza manifestata, scoperta, sperimentata allora Dio può rivelarsi come la roccia. Proprio quando facciamo esperienza della nostra morte, dei nostri inferi, si manifesta Dio, e Gesù mi dice di stare tranquillo perché «Le porte degli inferi non prevarranno».
Perché Dio è – e sarà sempre – l’unico punto buono e certo al centro di me.
L’unica cosa che rimarrà anche quando tutto il resto crollerà. Per questo darò le chiavi proprio a te, uomo debole. Proprio perché sei così, perché non ce la farai, perché cadrai sempre, ma proprio in tutto questo si manifesterà un Altro dentro di te. Se tu fossi la ‘roccia’, se tu fossi grande, potente, ricco, puro, integerrimo, ti manifesteresti tu al mondo, per le tue qualità, le tue capacità, invece no: io mi servo della tua debolezza per far vedere che al centro di te io sono la roccia che rimane; quando tu abbandonerai io rimarrò il fedele, quando tu tradirai io rimarrò accanto. Nella tua debolezza io manifesterò la mia gloria, la mia azione, chi sono io veramente.
La santità cristiana è la splendida possibilità di vedere compiersi l’opera di Dio nella nostra vita.
Eloi Lecrerc, ricorda un dialogo tra Francesco e frate Leone il quale si sentiva molto triste perché continuava a sperimentare la fragilità e il fallimento:
– Sai tu fratello, in che cosa consiste la purezza del cuore?
– Nel non aver nessuna colpa di rimproverarsi – ribatté Leone senza esitare.
– Allora comprendo la tua tristezza – soggiunse Francesco – giacché abbiamo sempre qualcosa da rimproverarci.
– Sì – soggiunse Leone – ed è questo pensiero che mi fa disperare di attingere un giorno la purezza del cuore.
– Ah, Frate Leone – credimi, ribatté Francesco; – non ti preoccupare tanto della purezza dell’anima tua. Volgi lo sguardo a Dio. Ammiralo, rallegrati di lui che è tutto e soltanto santità. Rendigli grazia per lui stesso. Questo, significa avere il cuore puro.
– E quando ti rivolgi a Dio così, guardati bene dal tornare a ripiegarti su te stesso. Non chiederti mai a che punto sei con Dio. La tristezza che provi nel sentirti imperfetto e peccatore è un sentimento umano, troppo umano. Bisogna guardare più in alto, molto più in alto. C’è Dio, l’immensità di Dio e il suo inalterabile splendore. Il cuore puro è quel cuore che non cessa di adorare il Signore vivo e vero. Il cuore puro non si interessa che alla esistenza stessa di Dio, ed è capace, pur in mezzo alle sue miserie, di vibrare al pensiero dell’eterna innocenza e dell’eterna gloria di Dio. Un cuore siffatto è al tempo stesso sgombro e ricolmo. Gli basta che Dio sia Dio. In questo pensiero il cuore trova tutta la sua pace, e tutta la sua gioia. E Dio stesso diventa allora tutta la sua santità.
– Dio, nondimeno, esige da noi che ci si sforzi di essergli fedeli – fece osservare Leone.
– Sì, senza dubbio, disse Francesco. Ma la santità non consiste in un compimento del proprio essere, né in uno stato di pienezza. La santità consiste, in un vuoto che si scopre in noi e si accetta, e che Dio ricolma di sé nella misura in cui ci si apre alla sua pienezza.
La nostra miseria, se viene accettata, diventa lo spazio libero dove Dio può ancora creare. Il Signore non consente a nessuno di togliergli la gloria. Egli è il Signore, l’Essere unico, il solo Santo. Ma prende per mano il povero, lo estrae dal suo fango e lo invita a sedere fra i principi del suo popolo, perché prenda visione della sua gloria.