OMELIA 14a Domenica Tempo Ordinario anno A

«In quel tempo Gesù disse: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. 26Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. 27Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.28Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. 29Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. 30Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero”».

Gesù è colto da Matteo in preghiera, unica volta insieme alla preghiera/agonia nell’orto del Getsemani (26, 39). Non solo, dal parallelo di Luca evinciamo che Gesù sta «esultando di gioia nello Spirito Santo» (Lc 10, 21), e più precisamente in greco si ha «danzando di gioia nello Spirito Santo». Qual è il motivo di questa preghiera, di questa gioia così esultante da trasformarsi in danza? Gesù danza di gioia perché finalmente il Padre ha trovato qualcuno che s’è reso disponibile a lasciarsi raggiungere dal suo Amore.
La danza di gioia di Dio è vedere la sua creatura finalmente felice perché scopertasi amata da lui.
Io sono il motivo della gioia di Dio se mi sperimento amato da lui!

Gesù afferma: «Ti rendo lode, Padre…» (v. 25). Letteralmente sarebbe «confesso, riconosco che tu sei Padre». Gesù riconosce in questo modo la sua fonte, la sua scaturigine. È qui che nasce il ringraziamento, quel sentimento di lode che ha il sapore della salvezza, in quanto coincide col non sapersi origine di se stessi ma semplicemente donati.
E questa sua origine non la identifica con una divinità generica, ma la chiama Padre. E uno è padre solo se ha figli che lo riconoscono come tale.
Ecco, Gesù è venuto a rivelarci questa nostra verità, l’unica in grado di dare senso all’esistenza: sapere di avere un Padre che è amore e che ama me suo figlio, e che per crescere sempre più in questa mia vocazione, son chiamato a vivere come lui, ovvero riconoscere nel medesimo amore gli altri sui figli come fratelli.
Il non sapere questo si chiama “peccato”; ovvero vivere da orfani, da separati dalla fonte, dalla scaturigine dell’essere, non sapersi più ricettacoli di vita, in un continuo doversi inventare e reinventare la vita, cercando disperatamente compimento in un altrove.
Noi riposiamo in questa verità: possediamo un valore infinito, perché amati da un amore infinito.

E chi può godere ora di questa verità, che è motivo della stessa danza di Dio? Non i Sapienti (quelli che credono di sapere dove stia la vita e la verità) e neanche i dotti, i saggi, ovvero i furbi, quelli che credono di sapere come dirigere le cose a proprio vantaggio, fosse pure Dio.
I sapienti e i dotti son pieni di sé, ma un vaso pieno non può essere ricettacolo di nessun dono, di nessuna rivelazione, di nessuna grazia dall’esterno, nessuna sapienza di Dio.
Noi, pieni di sapienza umana, che per Paolo coincide con l’autosufficienza (cfr. 1Cor, 1-2), non siamo più ricettacoli di quella divina.

Allora sono i piccoli quelli che possono ricevere il dono dell’amore vero. Cioè quell’amore che non va conquistato con la sapienza, con l’intelligenza, né guadagnato dai meritevoli e dai puri.
I piccoli sono i ‘precari’, letteralmente quelli che vivono solo in virtù della preghiera, quelli che sanno di non poter contare sulle proprie possibilità, e in quanto tali, consapevoli di non meritare nulla. Ma son proprio i figli che Dio desidera avere, perché i più ‘capaci’ a ricevere.
In fin dei conti, il nostro unico peccato è quello di non voler ricevere l’amore in maniera gratuita. O se vogliamo di non credere all’amore.
«E hai ottenuto quello che
volevi da questa vita, nonostante tutto?
Sì.
E cos’è che volevi?
Potermi dire amato, sentirmi
amato sulla terra». (Raymond Carver, poeta statunitense)

Dio si concede solo a chi ne ha bisogno: al povero e al mendicante.

I piccoli, cui si fa qui riferimento, sono letteralmente gli ‘infanti’, ovvero coloro che non possono ancora parlare. Ebbene, proprio chi non ha parola da proferire è preposto a ricevere l’unica Parola che salva. Qui sta l’unica sapienza dell’uomo: sapersi figlio bisognoso del Padre. Di sapere che il Padre è la fonte di tutto.
Per cui Gesù esulta, danza di gioia perché gli unici che possono ricevere la grazia della salvezza sono i peccatori, i bisognosi, i ‘vuoti’ a perdere… Dove c’è il bisogno c’è il desiderio, dove c’è il desiderio c’è il dono, dove c’è il dono c’è Dio. Perché Dio è solo dono, e non può non donarsi a chi si riconosce puro desiderio.

I dotti, i sapienti allora andranno perduti? Sono esclusi dalla salvezza?
No, perché il Padre non ha figli da buttare, ma solo da amare.
Dal Vangelo sappiamo – come s’è detto sopra – che questi coincidono con coloro che pensano che tutto vada conquistato, attraverso l’osservanza della legge, delle norme, delle performance morali. Passare una vita a conquistarsi l’amore però è una vita debilitante, frustrante e faticosa. Ebbene a questi Gesù dice: proprio voi, che siete «affaticati ed oppressi» (v. 28) a causa di questa vita tutta giocata sulle opere della legge, «venite a me» e io vi ‘riposerò’, perché la mia è un’altra legge, quella dell’amore. Gesù ci invita a vivere il passaggio dalla legge al Vangelo, dal dovere all’amore, dalla promessa al dono dello Spirito, dalla legge che dice: se fai questo sbagli e perdi la vita,  all’amore che ti dice: se hai sbagliato permettimi di abbracciarti e ricomincerai a vivere. Il passaggio dalla religione, al cristianesimo.

L’invito ad andare a lui, è costante nel Vangelo di Matteo. Fu rivolto ai discepoli quando li chiamò a sé: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini» (4, 19), quando Dio invita tutti i suoi figli: «tutto è pronto, venite alle nozze» (22, 4); al Giudizio finale: «venite benedetti dal Padre mio…» (25, 34). La salvezza non è questione di ‘fare’, ma di ‘accogliere’ un dono; non procurarsi nulla, ma accettare di lasciarsi introdurre nella comunione con Dio, partecipare alle nozze, sedere a mensa con lui, partecipare insomma al suo amore.

Gesù ci sta dicendo che la vita non risiede nell’osservanza di una legge. Puoi conoscere tutte le norme e le leggi che sopraintendono la nascita d’un fiore, ma per quanto studi le leggi della botanica, se non hai un seme che muore non godrai mai della bellezza di un fiore. La legge mi intima cosa devo fare, e non riuscendoci al massimo ti dice che stai sbagliando, e in questo modo ti giudica dichiarandoti morto: la legge uccide! «Non però che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi, ma la nostra capacità viene da Dio, che ci ha resi ministri adatti di una Nuova Alleanza, non della lettera ma dello Spirito; perché la lettera uccide, lo Spirito dà vita» (2Cor 3, 6).

Nessuna legge sarà mai in grado di salvarci. Più essa è giusta e più ci condannerà nel momento in cui ci accorgiamo di non riuscire ad assolverla. Essa è in grado di dirmi anche dove risiede il segreto della vita: nell’amore verso Dio: «Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Dt 6, 5) e verso il prossimo: «Ama il prossimo tuo come te stesso» (Lv 19, 18) ma non sarà mai in grado di rendermi capace di tale amore. Terribile conoscere ciò che sarebbe in grado di compiermi ma al contempo costatare di non riuscire a viverlo… È come arrivare alla soglia del compimento, della felicità e non potervici  entrare!

Ora Gesù dice: venite a me, perché chi sta in comunione con me che sono l’Amore, vivrà di questo amore. Io vi dono ciò che vi comando perché possiate avere in voi la vita. Voi potete passare finalmente nel compimento, se mi permettete di entrare in voi, se mi accogliete.

«Prendete il mio giogo sopra di voi» (v. 29). Il giogo fatto di legno, unisce due bestie, in modo che il lavoro di aratura e quindi abbondante frutto futuro, venga ottimizzato. Ora sappiamo che vi è qualcos’altro che compie quel lavoro in grado di portare frutto nella vita: un altro legno, la croce, ovvero l’amore più grande.
Questo nuovo legno è ora ciò che unisce noi a Cristo, l’umanità alla divinità; col suo amore riversato in noi (Rm 5, 5), ora possiamo arare il nostro quotidiano e far cadere nel solco quel seme che è caparra di vita compiuta.
Nella sua croce abbiamo l’offerta del suo amore, promessa di compiutezza e possibilità che le nostre croci trovino senso e possano sbocciare come fiori. Con la sua croce si è unito a noi, in modo che il tutto di noi ora faccia parte di lui.
E ameremo nel mondo come ha amato lui, con mitezza e umiltà (v. 29), ovvero con lo stile medesimo di Gesù che non fa mai pesare l’autorità perché l’unica autorità di Dio è solo il servizio, e ritenendo ciascun fratello superiore a se stesso sino a fargli dono della propria stessa vita.