OMELIA 21a Domenica Tempo Ordinario anno A

«Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: “La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?”. 14Risposero: “Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti”. 15Disse loro: “Ma voi, chi dite che io sia?”. 16Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. 17E Gesù gli disse: “Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. 18E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. 19A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”. 20Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo».

 

Chi è Gesù per me?

La risposta a questa domanda mi definisce: Io sono ciò che Gesù è per me.

Il Vangelo è racconto di una persona, e non esposizione di un’idea; per questo la conversione consisterà sempre nel passare dall’idea di e su Dio, all’incontro-esperienza personale col Dio di Gesù Cristo. Per questo il Vangelo è al contempo continua educazione su chi è Dio nella sua oggettività, e guarigione delle mie idee improbabili su Dio.

 

Con una persona, se incontrata nella sua oggettività, entrerò in una relazione vitale, e questo grazie anzitutto all’ascolto di ciò che ha da comunicarmi, e poi rispondendo attraverso la mia vita.

Con una persona immaginata, la sommergerò anzitutto con il mio monologo, arrivando poi a manipolarla per i miei fini.

Tutto questo vale anche con Dio.

 

Quanto è importante quindi giungere alla relazione/conoscenza dell’altro nella sua totale oggettività.

Per una relazione matura e feconda, dovrò accogliere l’altro per quello che è, nella sua verità. Ma perché l’altro possa rivelarsi nella sua oggettività – ovvero per quello che è e non per quello che io penso possa essere – devono cessare i miei pensieri su lui, le mie attese, i miei desideri, i miei monologhi.

 

Dio (e l’altro) non è il compimento dei miei desideri, ma realizzazione della mia verità.

 

Il Vangelo intende guarirci dal pericoloso giudizio sull’altro; spesso condanniamo le persone sul nostro letto di Procuste, ‘stirandoli’ se troppo lunghi, amputandoli se troppo corti. L’essenziale che corrispondano alla nostra misura.

Il problema è che facciamo così anche con Dio. Noi siamo molto abili a questionare su Dio, a condurre alti discorsi su di lui (fare teologia), porgli domande, interrogativi e chiedere lumi sul Mistero.

Il Vangelo oggi ci ricorda che l’essenziale è piuttosto ascoltare la domanda che lui ha per me, e rispondere di conseguenza. L’essenziale è lasciarsi mettere in questione da Dio, più che questionare su di lui.  È lasciarsi raggiungere, piuttosto che raggiungerlo con definizioni anche sublimi sulla sua essenza.

 

Gesù domanda: Chi sono io per te? (cfr. v. 15). Cosa c’entro io con la tua vita?

Le risposte possibili son due, da sempre. Una religiosa e una mossa dalla fede.

 

Quella religiosa si ferma al ‘contenuto’, ad un’affermazione ‘dogmatica’, imparata magari a catechismo; è quella che i teologi chiamano fides quae. Risposta che incasella, definisce, sistema Dio in una griglia concettuale predefinita. E pensiamo di conoscere Dio in proporzione a ciò che sappiamo su di lui, alle informazioni in nostro possesso. È come presumere di dissetarsi conoscendo la formula dell’acqua.

 

Gesù però vuol farci fare un passo oltre, dalla religione alla fede.

Nella tua vita concreta, cosa ha che fare il Dio di Gesù Cristo? La relazione che hai con la persona di Gesù Cristo, tocca anche le scelte che fai, il tuo modo di pensare, di vedere le cose, di incontrare la persona che ami, gli amici che frequenti, il lavoro che svolgi, il denaro che gestisci, il vestito che indossi, il cibo che mangi?

 

Pietro risponde sì: Tu sei l’atteso dal mio cuore. Sei acqua per la mia sete inestinguibile, e io mi son dissetato perché ti ho bevuto, ho accettato che tu entrassi come sangue nel mio sangue, e aria nei miei polmoni.

Tu sei luce che fa sbocciare vita dalla povera zolla di terra che sono.

 

Tu – mio Dio – sei il tutto, che impedisce al tutto di diventare dio.

 

La fede è sempre commosso stupore dinanzi alla verità di Dio. Stupore che si fa adorazione, letteralmente atto che consiste nel portare la mano alla bocca (ad-os) per finalmente tacere, compiere un religioso silenzio e ammettere l’altro in quanto alterità assoluta.

 

E Gesù a Pietro risponde beato (v. 17). Felice tu Pietro che vivi questo, che sei giunto a questa conoscenza di Dio derivata dall’amore, che prende il nome di fede.

Pietro ha scoperto in Gesù il Dio vivente, colui che rimane anche nella morte; il Dio luce che rimane anche nelle tenebre; il fedele anche quando tutto è infedeltà e abbandono.

La fede evangelica è credere che Dio mi è fedele. Che Dio ha fede in me. Che mi ha amato talmente tanto da dare la vita per me: «non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2, 20).

 

È su questa fedeltà di Dio che è stata – e sarà sempre edificata la Chiesa: comunità di donne e uomini che credono, che fanno esperienza ogni istante che Dio è fedele a noi, e non noi a Dio, perché l’uomo mancherà di fede, egli però rimane fedele (cfr. 2Tm 2, 13).

 

Al v. 19 abbiamo la definizione di quello che verrà chiamato, nella storia della Chiesa, primato di Pietro, che può essere sintetizzato così: il servizio (primato) di Pietro – e quindi di ciascun credente nella Chiesa – consiste nel vivere la fede evangelica: essere cioè esempio di fede per gli uomini di sempre, aiutare a far fare esperienza della fedeltà di Dio per la sua creatura in ogni situazione, anche la più drammatica, anche la più oscura.

 

Ma occorre non dire a nessuno che egli era il Cristo (v. 20). Almeno sino a quando Gesù non sarà elevato da terra.

L’unica vera immagine di Dio ci deriva dalla croce. È sul patibolo infame che Dio rivela il suo vero volto: amore sino alla fine. Per questo, ogni conoscenza di Dio che non passa dal crogiuolo della croce, sarà sempre un’immagine impura, ancora piena di scorie, non oggettiva appunto. Solo dinanzi all’amore crocifisso abbandoneremo tutte le nostre immagini distorte che ci portiamo dentro di Dio, e impareremo finalmente a riconoscerlo in tutti i crocifissi che chiedono di essere accolti. Smetteremo così di fare domande su Dio, e impareremo a rispondere alle invocazioni dei fratelli che ci chiedono, imploranti, di amarli così come sono e non come vorremo che fossero.