«E vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. 2E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. 3Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva:
“Ecco la tenda di Dio con gli uomini!
Egli abiterà con loro
ed essi saranno suoi popoli
ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio.
4E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi
e non vi sarà più la morte
né lutto né lamento né affanno,
perché le cose di prima sono passate”.
5E Colui che sedeva sul trono disse: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”». (Gv 13, 31-33a.34-35)
Al termine dell’Apocalisse (seconda Lettura di oggi), Giovanni contempla l’orizzonte, il punto ultimo dell’umana avventura: un cielo nuovo e una terra nuova, la città santa, letteralmente: la città ‘altra’, diversa. Giovanni nutre, con noi, la speranza che la storia, la nostra personalissima storia alla fine conoscerà un incontro, e non il nulla e che noi stiamo procedendo verso un fine e non verso la fine, verso un compimento e non il disfacimento. Giovanni nutre la ferma speranza che vi sarà un luogo, uno spazio e un tempo ‘altro’ dove verrà asciugata ogni lacrima dagli occhi che hanno pianto.
«Non voglio rassegnarmi ad essere cattivo/Tu sola puoi salvarmi, tu sola e te lo scrivo/Dev’esserci, lo sento, in terra o in cielo/Un posto dove non soffriremo e tutto sarà giusto» (F. Guccini, Cirano).
Giovanni ci crede, perché ha conosciuto l’Amore, e che l’Amore non può tradire.
Con questa fede possiamo muoverci nel nostro quotidiano avendo dinanzi a noi questo orizzonte, come uno sfondo d’oro di un quadro di Simone Martini, come il cielo oro delle antiche icone bizantine, dove tutto viene trasfigurato come promessa di eternità.
Sì, già risplendono le luci dell’alba viene detto nella mattina di risurrezione, anche se non ancora il sole.
Sì, viviamo come in una ininterrotta alba, dove la luce è già vittoria sulla tenebra, malgrado il sole non sia ancora comparso.
Dev’essere così, perché se è vero che Dio è l’amore, allora dovrà dimostrarlo proprio alla fine. E noi lo attenderemo lì, puntuali al varco, quando il sipario cadrà su questo immenso palcoscenico della storia. E gli chiederemo ragione di tutto.
«Infatti si muore. Siamo suoi figli e si muore: e questo non è giusto. Che l’Amore sia sconfitta e il potere viceversa, non è giusto. Ha degli obblighi il Signore. Ecco, gli ultimi tempi sono quelli in cui Dio si sdebita, Dio è finalmente se stesso. Perché finché c’è la morte. Egli non è se stesso; finché ciò che vale è distrutto, Dio è in debito con noi. Ci sono in noi grida innocenti, vorrei dire persino bestemmie innocenti, che esprimono la protesta della creatura che, amando le cose buone, non tollera che siano distrutte, visto che c’è un Padre che è nei cieli e conta i capelli del nostro capo. L’incontro finale è anche il momento in cui Dio rende ragione di Sé a noi: sennò, non è vero che si chiama Amore. La parola Amore sarebbe una maschera della sua tirannide. Ma quando asciugherà le lacrime dai nostri occhi, Egli ci renderà conto di ciò che non abbiamo capito e delle ingiustizie che abbiamo subìto» (Ernesto Balducci).