«Un sabato si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo. Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti:
“Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cedigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto.
Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato”.
Disse poi a colui che l’aveva invitato: “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti”» (Lc 14, 1.7-14)
La Lettera agli Ebrei (prima lettura di oggi) ricorda ai cristiani come al tempo di Mosè vigesse un’idea di Dio tremenda, capace di incutere timore e tremore, sperando addirittura che non rivolgesse più la sua parola agli uomini (v. 19). L’idea era quella di un Dio nascosto tra le nuvole, che per entrare in contatto con l’umanità necessitasse di una gerarchia umana: il Sinedrio all’apice, a seguire gli anziani del Tempio, gli scribi, ovvero i detentori della legge e della morale, e poi i farisei, e poi sotto, in basso uomini e donne del popolo, la massa indistinta dei fedeli.
Gesù, è venuto a dire e a mostrare, che questa immagine di Dio è semplicemente blasfema. Egli ha sempre denunciato ogni gerarchia che presumesse di poter mettere in contatto il cielo e la terra, ogni mediazione umana e chiunque si arrogasse il diritto di farsi guardiano del Tempio e gestore del sacro. Tra Dio e i suoi figli non esistono mediatori: «Quando pregate dite Padre» (Lc 11, 2), e si ‘conoscerà’ Dio solo nella misura in cui si ‘conoscerà’ l’uomo, nella fattispecie il più povero e indigente.
Il Concilio Vaticano II ci ricorda qualcosa di importante a riguardo. Il popolo di Dio – la Chiesa – è un popolo ‘regale’, non ha cioè né capi né re che regnano su di essa.
È il popolo stesso re di sé stesso. È un popolo sacerdotale, per cui non ci sono preti che fungono da mediatori fra la Chiesa e Dio perché il popolo medesimo possiede il sacerdozio, in quando siamo tutti sacerdoti in virtù del battesimo. È un popolo profetico capace cioè di pensare con sapienza il futuro del regno di Dio e intravedere – in coscienza – il proprio cammino senza il bisogno di una gerarchia che lo debba
ammaestrare dall’alto.
Dunque la Parola di questa domenica è tutta volta a rispondere alla domanda fondamentale: dove poter incontrare il nostro Dio?
Non in cielo, e non attraverso alcuna mediazione con i detentori del ‘potere celeste’ che a certe condizioni (morale, cultuale, rituale …) si arrogano il diritto di aprire o sbarrare le sue porte (cfr. Mt 23, 13), ma nell’uomo assetato e affamato. Il Vangelo di oggi è inequivocabile a questo riguardo.
La società che viene qui auspicata, quella conforme al sogno di Dio, non è quella formata da un gruppo religioso – nella fattispecie quello cristiano – che grida “Viva Dio”, o “io sto con Dio”, ma quella dove a tutti è dato sedersi alla medesima mensa per poter fare festa, senza distinzione tra ricchi e poveri condividendo in maniera equa i frutti della terra che è madre e perciò di tutti.
«Questo è l’esser cristiani. Il nome di Dio viene dopo. È meglio che non si pronunci, per ora, perché ci imbroglia, e perché reintroduce un’idea creata dalla classe del potere. Solo se io amo il povero posso pensare a Dio senza sbagliare. Se non penso all’uomo, penso a Dio sbagliando. Questa è la verità che viene dal Vangelo» (Ernesto Balducci).