«Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”. Gesù rispose loro: “Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati,i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!”.
Mentre quelli se ne andavano, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: “Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi dei re! Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto:
Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero,
davanti a te egli preparerà la tua via. In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui». (Mt 11, 2-11)
«Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?».
Il Battista aveva riposto grandi speranze nell’uomo chiamato Gesù, l’inviato di Dio. Credeva potesse essere lui a cambiare le sorti dei disperati, a sovvertire la storia dominata dai potenti di turno, a incarnare finalmente quell’’’ira di Dio’ in grado di distruggere i malvagi donando la ricompensa ai buoni. Lo immaginava con l’accetta in mano a tagliare alberi infruttuosi e a ‘gettare nel fuoco’ gli sbagliati, i peccatori, i chiodi storti.
Il piccolo dio del Battista era la forza che avrebbe fatto pulizia dei parassiti di questo mondo, accogliendo nel proprio regno di luce, i suoi, i puri e i santi (cfr. Mt 3, 7ss.).
Quanto abbiamo a che fare noi oggi con questo piccolo dio? Quanto ce lo portiamo dentro, annidato nella nostra mente tanto religiosa da essere impietosa?
Quanto vorremmo un Dio a nostra immagine e somiglianza, e – ovvio – onnipotente, in grado di mettere le cose a posto, di far pulizia degli abomini degli uomini, di far giustizia dei crimini commessi in ogni dove. Giudice e poliziotto.
Al Battista, Gesù manda a dire che il suo Dio è altra cosa. Di certo non quello concepito dalla mente, quello immaginato, sperato, desiderato. Perché un Dio immaginato è semplicemente un idolo, e in ultima analisi diabolico.
Il Dio di Gesù non è l’atteso, ma carne e sangue; per Gesù non è questione di attendere Dio, ma di ‘farlo’: «i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo» (v. 5s.). Gesù incarna Dio, lo rende presente, all’opera, concreto nel momento in cui egli stesso illumina la vita di chi si è sempre sentito al buio, rimette in piedi, dà dignità a chi da sempre è stato costretto a strisciare per terra, abbraccia gli impuri, gli sporchi e gli inadatti, fa respirare i depressi, risveglia i morti viventi dicendo che anche loro sono su questa terra solo per danzare la vita, e gridando a quelli che si son sempre sentiti ultimi, sbagliati e impossibili che proprio per loro è il vangelo, ossia un amore che non premia chi ce la fa ma è forza per chi ne ha più bisogno.
E ora sappiamo che nulla ci verrà donato dall’alto, ma tutto va incarnato, vissuto, partorito. Se di ‘grazia’ vogliamo parlare è quella della responsabilità.
L’amore che salva, che compie l’umano è solo amore da costruire; in quanto Dio ‘non è tanto un fiore da cogliere, piuttosto un pane da impastare’ (Teresa Forcades).
Dio pane da impastare, carne da incarnare, amore da donare, vita da partorire.
Il Natale lo celebreremo non accogliendo un bambino donatoci dall’alto, ma incarnando il bene divenendo più umani.