«Da allora Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno. 22Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». 23Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!». 24Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. 25Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. 26Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita? 27Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni». (Mt 16, 21-27)
Nel Vangelo di oggi, Gesù «cominciò a mostrare…» (e non a ‘spiegare’, come è tradotto in italiano) la via della felicità, ossia che non vi è altra via alla felicità, alla vita, alla pienezza di sé, se non quella scaturita dall’amore che sa andare “fino alla fine” (cfr. Gv 13, 1; Gv 12, 24). ‘Prendere la propria croce’ significa infatti essere disposti a vivere tutte le conseguenze dell’amore.
È autentica felicità quella che passa nel crogiuolo dell’amore al fratello (cfr. 1Gv 3, 14).
Ma Pietro, e in fondo ciascuno di noi, ha la segreta speranza che debba esistere un’altravia possibile alla felicità. Quella che necessita di passare dalla morte di sé è troppo ostica e in fondo impraticabile. Infatti, dice a Gesù: «questo non ti accadrà mai» (v. 22). Pietro sta impedendo alla vita di vivere, alla luce di risplendere, al fuoco di scaldare. Sta chiedendo all’Amore di non essere Amore.
«Chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (v. 25).
Occorre giungere alla consapevolezza che ciò che ci compie come esseri umani, è perdere la vita, vivere quello che i mistici definirono come ‘distacco’, e gli orientali come ‘vuoto’. Non avere più elementi esterni cui aggrapparsi per definire se stessi: denaro, successo, famiglia, giudizi altrui. La nostra vera identità sarà data non dalle cose esterne a noi stessi, ma dall’emergere del nostro ‘sé autentico’, e questo verrà definito quando tutto il resto si frantumerà.
Occorre mollare la presa. Su tutto.
Da cosa facciamo dipendere la nostra vita? A cosa ci aggrappiamo, a chi ci assicuriamo per essere?
Neanche a Dio bisogna aggrapparsi. Perché sarebbe ancora qualcosa di esterno a noi e in ultima analisi un idolo. Quando vivremo il suo abbandono, avremo la vita salva, come Gesù sulla croce (cfr. Mc 15, 34). «Il Dio che è con noi è il Dio che ci abbandona» (D. Bonhoeffer). Perché Dio è solo vuoto e silenzio. Anzi ‘nulla’, per dirla con Meister Eckhart, ossia ‘né questo né quello’. Per cui solo nel vuoto, nel silenzio e nell’abbandono si sperimenterà Dio.
Finché faremo dipendere il nostro compimento, la nostra felicità dalle cose esterne a noi o da un Dio immaginato e pensato, ne rimarremo sempre delusi, perché non in grado di rivelarci la verità delle cose.