Lc 24, 35-48
La fede del cristiano può essere riassunta in questo assioma: ‘il risorto è il crocifisso’, e non ‘il crocifisso è risorto’ che lascerebbe intendere piuttosto la mera rianimazione di un cadavere, come avvenne per Lazzaro (cfr. Gv 11, 43), per la figlia di Giairo (cfr. Mc 5, 41) e il figlio della vedova di Nain (cfr. Lc 7, 14s.).
Affermare che ‘il risorto è il crocifisso’, significa credere che le ferite del Risorto sono state così importanti da essere divenute ‘materiale’ per vincere la morte: «Con i segni della passione vive immortale», recita il prefazio di Pasqua.
Dovremmo imparare a fare tesoro delle ferite che ci hanno segnato. Non gettiamole troppo velocemente nel buio dell’inconscio. Avvolgiamole nell’amore perché possano diventare materiale di risurrezione. Le ferite impresse nella carne e nell’anima ci rimandano forse agli schiaffi ricevuti da bambini, ai duri interventi di nostro padre. Le ferite ai nostri piedi potranno farci memoria delle persone che ci hanno trattato come pezze da piedi; i nostri incubi notturni potranno farci memoria delle offese e degli abusi subiti, del fatto che nessuno in quel momento fosse dalla nostra parte; le ferite del nostro costato ci riporteranno a quanto abbiamo sofferto per un amore poi fallito o tradito e di quanto si è patito per essere stati abbandonati.
Il Vangelo ci dice oggi che tutto questo materiale di scarto è possibile che divenga ‘la pietra angolare’ (cfr. Mt 21, 42), fondamenta per un nuovo edificio esistenziale, una nuova vita dove sarà ancora tutto possibile. Ogni ombra visitata e accolta potrà trasformarsi in un’esperienza del Risorto, perché egli è in grado di trasformare i miei limiti in luogo di comunione e di risurrezione, come la ferita per l’ostrica altro non è che possibilità che si formi in lei una splendida perla.
«La natura della nostra specifica sofferenza definisce fortemente chi siamo e che cosa decidiamo di diventare, come gli alberi che assumono forme uniche attorno alle loro cicatrici» (Jean Houston).