Mc 16, 15-20
Siamo manifestazione del divino di cui siamo impastati. Da ciò la possibilità di attribuirci un valore infinito e di pensarci con sufficiente fiducia.
Ma difficilmente ne siamo consapevoli. Ogni volta che l’angoscia s’affaccia nella nostra vita, è come dovessimo spingerci più in alto per essere un poco di più, quasi a voler bilanciare i nostri innati sensi d’inferiorità.
«Chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare (ed alzare) anche di poco la propria vita?» (Mt 6, 27).
Più cresce la paura di precipitare nell’abisso più s’innescano strategie di grandezza.
Gesù è venuto a tirarci giù, ricordandoci che siamo già grandi abbastanza, valiamo già molto e andiamo benissimo così.
L’ascensione al cielo di Gesù fa rinunciare a noi l’improba fatica di conquistarlo. Il suo sedersi alla destra del padre, ha fatto in modo che noi potessimo stare come in paradiso su questa terra. Che la divinità non è una conquista ma un godimento perché ne faccio già parte. Che non dobbiamo più adattarci alle circostanze per prevenire l’infelicità o per evitare il disonore. Che non siamo più soggetti alle cose e agli altri per assaporare il diritto all’esistenza.
Gesù ci ricorda che una vita in balìa dell’ambiente, il dovere di adeguarvisi e di corrispondere alle attese altrui, si chiama possessione demoniaca, concetto che per la moderna psicanalisi prende il nome di angoscia: «distruzione progressiva dell’io nel folle sforzo di poter raggiungere in questo modo la propria felicità; un defatigante girare in tondo senza concludere nulla, senza direzione, senza stabilità» (Eugen Drewermann).
L’ascensione è certezza di una verità già data: io sono in Dio, nella luce, nell’Energia che tutto crea e ricrea, abito qui ed è solo qui la mia vita e la mia sicurezza. Se credo a questo, non avrò più necessità d’essere angosciato nel trovare casa ‘altrove’, con la serena certezza che le situazioni, anche drammatiche non avranno l’ultima parola su di me.