Gv 6, 41-51
«Chi crede ha la vita eterna”»; «Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno».
‘Credere’ non è aderire intellettualmente ad una verità, o limitarsi a professarla con la bocca: «Non chi mi dice Signore, Signore entrerà nel Regno dei cieli» (Mt 7, 21). La ‘verità’ è da farsi, da viversi: per cui credere avrà sempre a che fare con la vita, le scelte, le parole, i gesti, le mani: «In verità, in verità vi dico: chi crede in me, compirà le opere che io compio» (Gv 14, 12).
“Vita eterna” poi non significa ‘vita oltre la morte’, bensì ‘vita piena, compiuta, realizzata’ nel qui ed ora, una qualità di vita così bella capace di vincere anche la morte.
Il ‘pane’ infine, è simbolo della vita, per cui con ‘mangiare la mia carne’ Gesù non invita ad un atto di cannibalismo, ma piuttosto a ‘nutrirsi della sua stessa vita’, introiettarla, vivere con il suo medesimo stile, in maniera eminentemente umana; vivere ‘da Dio’ insomma, perché lo sappiamo, Gesù con la sua vita ci ha insegnato che solo Dio può essere così umano.
Il ‘pane’ è dunque la sua modalità d’esistenza, caratterizzata dal dono di sé, dalla compassione, dalla benevolenza, dalla sete di giustizia, di equità verso ogni essere, modalità che se fatta propria permetterà a ciascuno di sbocciare e quindi finalmente di vivere con senso.
La questione in fondo è domandarsi di quale ‘pane’ ci sfamiamo quotidianamente per il compimento del nostro essere. Di quale pane abbiamo fame: se ci saziamo delle persone che ci stanno accanto sbranandole o di contro facendoci dono, pane spezzato per chi domanda una presenza amica e un po’ di bene.
Torna qui un tema caro al vangelo di Gesù: la nostra fame esistenziale si estingue non tanto nel nutrirsi alla propria piccola mangiatoia, ma nel provvedere alla fame degli altri.