Mc 13, 24-32
La cronaca quotidiana ci fa memoria di violenze, distruzioni continue e di un
male che pare non avere fine.
Anche la primitiva comunità cristiana s’è trovata avvolta in un male indicibile.
Roma, la comunità di cristiani cui Marco si rivolge col suo vangelo, è stata
messa a ferro e fuoco da Nerone. Gerusalemme pochi anni più tardi verrà rasa
al suolo. E Marco riprende le parole del Maestro per infondere pace e serenità
ai suoi. Non abbiate timore, perché questo dolore è paragonabile a quello che
precede il parto (cfr. Gv 16. 21): qualcosa di nuovo sta per nascere.
Il Vangelo ci ricorda che la storia non è un disastro, che non stiamo andando
verso la fine, ma verso un fine. Ciò che ci sta dinanzi è il nostro compimento, la
nostra realizzazione come donne e uomini. Non stiamo per ‘disfarci’, ma per
‘trasfigurarci’. A patto che ci giochiamo la vita non dietro il fascino delle star
del momento (nel nostro brano i potenti della storia del Medioriente
identificati con il Sole, la Luna e le stelle, considerati in quel tempo dèi), tutte
destinate ad ecclissarsi (vv. 24-25), ma nei valori proclamati nel vangelo. Se
s’investe sul potere, l’avere, il successo del proprio ego, ci si ecclisserà, mentre
se si esce dall’io a favore di qualcuno, per il bene, la giustizia, la pace, si vivrà
in pienezza.
Ci s’illumina illuminando gli altri.
Non solo, il Vangelo di oggi ci ricorda che quando il male parrà avere trionfato,
quando si assisterà alla manifestazione massima del male, allora
contempleremo appieno la gloria di Dio: «Vedranno il Figlio dell’uomo venire
sulle nubi con grande potenza e gloria» (v. 26). Perché? Semplicemente perché
in quel venerdì, l’unico santo della storia, è accaduto proprio questo: dinanzi al
male assoluto, alla croce di Cristo, alla morte di Dio, un uomo ha gridato:
«davvero quest’uomo era figlio di Dio» (Mc 15, 39): riconoscimento di un
amore. Memoria che l’amore riporta la vittoria quando viene ferito, e che la
tenebra, alla fine rivelerà sempre la luce.