«Allora i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come coglierlo in fallo nei suoi discorsi. 16Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: “Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. 17Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?”. 18Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: “Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? 19Mostratemi la moneta del tributo”. Ed essi gli presentarono un denaro. 20Egli domandò loro: “Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?”. 21Gli risposero: “Di Cesare”. Allora disse loro: “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. (Mt 22, 15-21)
L’uomo è immerso nel mondo, quel mondo cui a capo vi è – e vi sarà sempre – un Cesare. Il cristiano è parte integrante di questo mondo, riconosce l’autorità legittimamente costituita, sottostà alle sue leggi ed è chiamato a collaborare perché il mondo del potente Cesare sia sempre più anche il mondo vivibile degli uomini.
Il cristiano non è avulso dalla storia, egli non vive in un mondo parallelo, non è un disincarnato. Ha le mani in pasta, anzi egli è dentro a questo mondo come il sale nella pasta: «Voi siete sale della terra» (Mt 5, 13), e «luce del mondo» (Mt 5, 14).
L’essere di Cristo non autorizza a disertare la terra: quando Gesù prega il Padre, in Giovanni, lo fa con queste parole: «Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno» (Gv 17, 15). Anzi l’unico luogo dove è permesso compierci, realizzarci come donne e uomini è proprio, e solo, questo mondo.
Non può non venire alla mente ciò che scrisse un anonimo cristiano all’inizio dell’avventura cristiana, nel II sec. d.C.: «I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. 2. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. […]
VI. 1. A dirla in breve, come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani. 2. L’anima è diffusa in tutte le parti del corpo e i cristiani nelle città della terra. 3. L’anima abita nel corpo, ma non è del corpo; i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo. […]. 10. Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare» (Lettera a Diogneto V-VI).
«Rendete a Cesare quel che è di Cesare» (v. 21) vorrà dire dunque servire, prendersi cura di quello che siamo soliti denominare il bene comune: impegnarsi a fare il bene in questo mondo di Cesare. Non vuol dire idolatrare il potente di turno, ma fare in modo che il mondo sia ‘trasformato’ dal di dentro, attraverso l’inserimento di un principio nuovo – quell’anima di cui parla l’autore cui sopra – una nuova modalità d’esistenza, la nostra vita di cristiani, portatori e dispensatori della stessa vita di Dio, lo Spirito Santo, che vince il male e la morte. Sì, perché sarà pur vero che questo nostro mondo è pieno di menzogna e di morte, ma Gesù ebbe a dire ai suoi: «Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra i serpenti e gli scorpioni e sopra ogni potenza del nemico; nulla vi potrà danneggiare» (Lc 10, 19), dove il serpente è simbolo della menzogna, e lo scorpione è simbolo della morte, perché ha il veleno nella coda, sua parte terminale. Il cristiano è, in virtù della sua appartenenza a Cristo derivatagli dal Battesimo, una ‘nuova’ modalità d’esistenza, portatore di un principio di vita nuovo in grado di vincere anche la menzogna e la morte.
Per cui restituire a Cesare ciò che è di Cesare è contribuire a restituire al mondo un mondo trasformato dal di dentro.
«I miti della redenzione cercano astoricamente un’eternità posteriore alla morte. […]La speranza cristiana della resurrezione si distingue da quelle mitologiche per il fatto che essa rinvia gli uomini alla loro vita sulla terra in modo del tutto nuovo e ancora più forte che nell’Antico Testamento. Il cristiano non ha sempre un’ultima via di fuga dai compiti e dalle difficoltà terrene nell’eterno, come chi crede nei miti della redenzione, ma deve assaporare fino in fondo la vita terrena come ha fatto Cristo («Mio Dio, perché mi hai abbandonato?») e solo così facendo il crocifisso e risorto è con lui ed egli è crocifisso e risorto con Cristo. L’aldiquà non deve essere soppresso prematuramente» (D. Bonhoeffer, Lettera 27.VI.’44).
L’intuizione del pastore protestante è splendida: l’essere cristiani non significa essere proiettati verso un aldilà, ‘saltando’ la terra.
Partecipare della resurrezione del Cristo significa essere piuttosto ‘rinviati’, radicati, ben piantati in questa terra attraverso una modalità di vita del tutto nuova.
È vero, i santi sono coloro che hanno sempre avuto una grande nostalgia del cielo, pensando spesso al Paradiso. Ma questa speranza nel paradiso è stata la forza per impegnarsi con maggior energia qui, al centro della storia, forza per non tradire la vita che ci è stata donata. Il cristiano – il risorto dunque – è colui che come un albero rovesciato, ha la chioma su questa terra, e le radici – da cui attinge linfa vitale – in cielo. Nessuna facile via di fuga è data al cristiano, ma piuttosto gli è chiesto di assaporare fino in fondo ciò che sa di terra e di fango, qui ed ora.
Ma cosa vorrà dire rendere a Dio ciò che è di Dio? Se nel caso di Cesare tutto è partito da un’effige su di una moneta, qual è la moneta che riguarda il mondo di Dio? L’uomo. La sua creatura è l’immagine di Dio! Siamo stati infatti creati ad immagine e somiglianza di Dio (cfr. Gn 1, 26). Rendere a Dio ciò che è di Dio vorrà dire far in modo di restituirgli le sue creature nella loro piena dignità. Rendergli ciò che è suo vuol dire presentargli l’uomo ridonato a se stesso, ripulito dal fango che lo imbratta, guarito delle ferite nel corpo e nell’anima. Rendere a Dio ciò che è di Dio, vuol dire in fondo ridonare l’uomo a se stesso.
Ecco qual è il compito del cristiano: impegnarsi in questo mondo concreto al fine di trasformarlo dal di dentro, in modo da restituire a Dio le sue creature nella loro piena dignità. In una parola, ai cristiani non è dato disertare la terra in nome di un fantomatico ‘cielo’, ma è chiesto loro di trasformare la terra in un cielo.
Giovanni Crisostomo afferma: “Dio dice: io ho creato cielo e terra. Anche a te do forza creatrice, fa sì che la terra diventi cielo; tu infatti lo puoi” (In Ep. Ad Tim. Hom. 15, 4.). E questo avviene appunto nella nuova vita dei cristiani, la Chiesa; in essa, «noi facciamo sì che la terra diventi cielo». L’essere per gli altri, la diaconia, l’amore fraterno trasforma la terra; l’amore fraterno è già l’inizio della salvezza e non un semplice segno di questa.
La diaconia che è servizio di Cristo, che nei poveri ha personalmente e direttamente bisogno d’aiuto, compie già nell’aldiquà quello che è il Regno di Dio fra gli uomini. Nel Padre nostro noi preghiamo perché venga qui ed ora il suo Regno, e noi sappiamo anche che dove si vive l’amore fattivo, là si trova già un “pezzo di Regno di Dio”: «Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra…, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio. Udii allora una voce potente che usciva dal trono: “Ecco la dimora di Dio con gli uomini!” (Ap 21, 1-3).
Il paradiso non sarà dunque tanto la terrà che trasfigurata dall’amore salirà in cielo, ma il cielo che scenderà sulla terrà, e impregnerà di amore ogni cosa. Sarà la terra trasformata in paradiso, e questo attraverso il prendersi cura dei fratelli, proprio qui in questa terra fatta di Cesari e di santi.