«Un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. I discepoli erano con lui ed egli pose loro questa domanda: “Le folle, chi dicono che io sia?”. 19Essi risposero: “Giovanni il Battista; altri dicono Elia; altri uno degli antichi profeti che è risorto”. 20Allora domandò loro: “Ma voi, chi dite che io sia?”. Pietro rispose: “Il Cristo di Dio”. 21Egli ordinò loro severamente di non riferirlo ad alcuno.
22“Il Figlio dell’uomo – disse – deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno”.
23Poi, a tutti, diceva: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. 24Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà». (Lc 9, 18-24)
Pietro risponde alla domanda postagli da Gesù in maniera ineccepibile: «Tu sei il Cristo di Dio».
Pietro è convinto di ciò che dice, pare infatti conoscere molto bene il suo maestro. Risposta da manuale, da Catechismo, potremmo dire. Ma da lì a poco, dinanzi ad una giovane serva, negherà di averlo mai conosciuto: «Non conosco quest’uomo» (Mc 14, 71).
È molto pericoloso pensare di conoscere Cristo a colpi di definizioni, confondere cioè il Dio creduto col Dio pensato.
Stando al Vangelo pare che l’autentica conoscenza di Cristo sia quella esperienziale: non come un oggetto tra gli oggetti, ma una conoscenza che si fa esperienza appunto: vivere Cristo insomma. ‘Saprò’ chi è Cristo nella misura in cui lo vivrò nella carne, ossia nella misura in cui divento Cristo!
Ciascuno di noi è chiamato (questa è l’autentica vocazione cristiana), a compiere il medesimo cammino ‘ascensionale’ di Gesù di Nazaret, di trasfigurazione: da uomo a uomo compiuto, maturo, tanto da poter arrivare a dire con lui: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14, 9), e ancora: «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10, 30).
«Se volete riconoscere Dio non solo dovete essere uguali al Figlio, ma dovete essere il Figlio stesso» (M. Eckhart).
«Non dobbiamo diventare cristiani, dobbiamo riconoscere di essere il Cristo. Cristo è il nome dell’uomo nuovo. Il nostro peccato è quello di non renderci conto di chi siamo davvero. La funzione redentrice della morte di Gesù in croce e della sua risurrezione consiste nel condurci alla nostra vera natura, al regno di Dio in noi. Non entriamo in questo regno grazie ad una magia compiuta da Gesù, dobbiamo piuttosto rivolgere il nostro sguardo verso la nostra interiorità per poterne fare esperienza. Non solo ci chiamiamo figli di Dio, lo siamo realmente (cfr. 1Gv 3, 1)» (W. Jäger).
Il problema della fede sta dunque tutto qui: nello sforzo di passare dal “Dio creduto” al “Dio vissuto”.
Ma come sarà possibile compiere questo cammino ascensionale, di crescita, di compimento, di trasfigurazione da uomo a Cristo? La risposta sta nella seconda parte del Vangelo di oggi: “essere ucciso e risorgere, perdere la vita e ritrovarla”. O come dicono gli orientali, «muori e rinasci!».
Uscendo dall’utero materno il neonato subisce una sorte di morte quando viene ‘alla luce’ e comincia a respirare coi suoi polmoni. Perché nasca la vita adulta, deve morire quella infantile e così via…
Tutto per poter cominciare a vivere deve prima conoscere la morte.
Occorre morire ai propri attaccamenti, alle proprie certezze, sicurezze, al voler essere qualcuno, al volersi fare un nome, all’essere grandi a tutti i costi. Occorre rinunciare a possedere tutto e tutti, addirittura Dio. Sì, occorre rinunciare a possedere Dio, a volerlo capire, comprendere.
Solo allora, quando non avremo più sicurezze, quando impareremo a ‘mollare la presa’, quando vivremo il puro ‘nulla’, allora qualcosa in noi potrà finalmente nascere, e questo sarà qualcosa che non avremo posto, deciso, pensato noi. Ma semplicemente qualcosa che ci portavamo dentro da sempre, come un qualcosa di già dato, che da sempre ci trascendeva. La questione è percepirsi come ‘dati’, perché la vita non ce la si dà, ma la si riceve e basta. A questo qualcosa che ci precede da sempre, occorre ora solo, nella morte dell’io, dargli spazio e respiro, per poterlo finalmente far sbocciare.
“Muore e rinasce”. Questa è la legge della natura di ogni cosa.
Questa è la legge dell’amore, la legge di Cristo: morto per amore e ora vivente per sempre.
Questa è la nostra legge.