OMELIA 16a Domenica Tempo Ordinario anno A

Per questioni di spazio si sceglie di commentare soltanto alcuni versetti del Vangelo odierno.

Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. 25Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. 26Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. 27Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. 28Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. 29“No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. 30Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponételo nel mio granaio”».

Occorre partire dalla convinzione che ciascuno di noi è abitato da cielo e fango. Questa è la nostra verità. In noi coesistono bene e male. Non siamo né bianco, né nero. Siamo una splendida e infinita sfumatura di grigi.

Il male ce lo portiamo dentro, lo facciamo e ci conviviamo anche abbastanza bene. La zizzania, l’erba cattiva, infestante, velenosa è parte integrante di noi. È cresciuta nel nostro campo, insieme al grano; l’egoismo, l’incentramento su di noi, il far morire l’altro per godere un po’ più di vita, è la logica naturale che tendiamo a vivere ogni giorno.

La comunità cui Matteo scrive, si sta interrogando sull’unica domanda antropologicamente seria che è lecito porsi: da dove dunque questo male? Se Dio c’è, cos’ha a che fare con l’esistenza del male in me e fuori di me? Perché non lo elimina? Ma soprattutto, cosa farne ora che ho scoperto che questo male mi abita?

Gesù si premura a dire che all’origine di tutto, e quindi di me, vi è solo il bene: «Un uomo ha seminato del buon seme (lett. anche “del bel seme”) nel suo campo» (v. 24).

Dio ha posto in me solo il bene e il bello, perciò ora so che solo il bene e il bello saranno in grado di compiermi.

Il male non è, e non mi è, originario. Esso viene dopo, in seguito. Da dove? Non da Dio, perché Dio non può volere il male, e tanto meno da me, in quanto io posso riconoscerlo come parte di me, posso aderirvi compiendolo, ma non crearlo. Siamo schiavi del male, non suoi creatori.

Il testo afferma: «il suo nemico, seminò zizzania in mezzo al grano» (v. 25). Il male giunge d’altrove; il Vangelo non spende parole per addentrarsi nel mistero del male, si limita a parlare di un generico ‘nemico’ che giunge e s’insinua in maniera subdola dentro l’uomo, quando questi dorme, ovvero quando è distratto, quando meno se lo aspetta.

Stiamo attenti a non trarre facili quanto sterili conclusioni sull’origine del male. Gesù qui non parla né di una disobbedienza originaria e tanto meno di un peccato originale. Al v. 39 del medesimo capitolo, Gesù parlerà sì del diavolo che ha fatto tutto questo, ma occorre contestualizzare questo termine nella Bibbia intera e andare all’origine del suo significato, cosa che non possiamo permetterci di fare in questo commento. Il problema comunque non è scoprire il ‘da dove’ del male, ma il ‘cosa farne’, ora che questo male è presente.

Cos’è questo seme buono e questo seme cattivo? Il seme buono è la Parola di Dio, che rivela la verità su Dio, su di me e sui fratelli: Dio è solo amore folle, che ama me figlio in maniera immeritata e gratuita, e il fratello è il figlio amato anch’esso dal Padre che se io comincio ad amare ha il potere di farmi diventare come il Padre.

Il seme cattivo è la menzogna su Dio, su me e sul fratello: Dio è cattivo, giudice e padrone, io sono schiavo, giudicato e schiacciato da questa entità e l’altro è il nemico da cui difendermi e possibilmente da sopprimere al fine di poter vivere. Un seme che, se coltivato, mi fa vivere nell’egoismo, giocando tutto sul possesso, sul potere e sulla violenza.

La parabola – scritta ad arte – sottolinea lo stupore dell’uomo che solo a un certo punto si stupisce della presenza in sé della zizzania: «Spuntò anche la zizzania», ma solo dopo che il grano «crebbe e fece frutto» (v. 26).

Il male ci si accorge che è tale solo dopo averlo compiuto. Esso si ammanta sempre di luce, promette felicità e gioia, affascina e attrae. Altrimenti chi lo compirebbe? Nessuno fa il male per fare il male! Nessuno è masochista. Facciamo il male sperando ci raggiunga un bene. Solo dopo ci si accorge degli effetti devastanti che portava con sé. Il male promette molto ma non mantiene mai le promesse fatte.

In greco zizzania è al plurale, quindi andrebbe letto come zizzanie. Solo il bene è unico, ma declinabile in innumerevoli possibilità: «Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5, 22). Il male è invece sempre uguale a sé: per quante forme esso possa assumere nel mondo, rimane sempre male e distruzione. Per questo la manifestazione del male nel mondo è l’omologazione, la massificazione, l’assenza d’individualità. Mentre il bene è tale perché dov’è presente vengono esaltate le differenze; il bene è fantasia delle diversità e dell’alterità.

Il testo procede dicendo: «Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: Signore…» (v. 27). È questa la domanda che l’uomo, appena fatta la drammatica esperienza del male, rivolge al suo Dio. Ma tu non hai posto nel mondo solo il bene? Allora, perché il male? Se tu sei solo volontà d’amore e bene assoluto, allora perché il male nel mondo? E se l’hai voluto tu questo male, o perlomeno non fai nulla per eliminarlo, allora sei un Dio malvagio! [A proposito consiglio di guardare questo bel video: https://www.youtube.com/watch?v=_IS8V5k8Vg8&feature=kp]

No, Dio non ha ‘creato’ il male, non lo vuole, e tanto meno – come a volte si sente dire – lo permette!

Gesù si limita a dire: «Un nemico ha fatto questo».

Il problema, s’è detto sopra, non è scoprire ‘da dove il male’, ma cosa fare di questo male che pare dominare dentro e fuori di me.

Il Vangelo ricorda che vi sono solo due modalità di trattare il male.

La prima è strappare, distruggere, eliminare il male di cui facciamo esperienza dentro e fuori di noi. E tutto questo perché alla fine rimanga solo il bene, il puro, il pulito, l’integro.

È curioso che siano proprio i servi/discepoli ad avanzare questa proposta: «Vuoi che andiamo a raccoglierla?» (v. 28b). È ciò che circola in molta mentalità cristiana. Pensiamo che essere discepolo, essere credente consista in un lento cammino di pulizia nel proprio campo interiore, e soprattutto nell’ambiente in cui si vive, perché alla fine rimanga una sorta di perfetto prato inglese, ben rasato, con nemmeno un piccolo rimasuglio di erba infestante. Noi vorremmo una comunità fatta di puri, libera dal male. Tendiamo e tentiamo di fare del nostro ambiente una setta di predestinati. E di noi degli angeli. Questa è, purtroppo, una certa idea di santità che ci è propria.

No, dice Gesù. Dal punto di vista di Dio esiste un altro modo di trattare il male, una modalità che per la mentalità dei ferventi discepoli di sempre, appare perlomeno assurda: lasciarlo crescere! (cfr. v. 30).

Strappare le zizzanie, voler distruggere il male dentro e fuori di noi, è solo causa di altro male, di altra violenza, di altro odio.

L’unico modo di vincere il male è contrastarlo con il bene. «Non rendete male per male né ingiuria per ingiuria, ma rispondete augurando il bene. A questo infatti siete stati chiamati da Dio per avere in eredità la sua benedizione» (1Pt 3, 9).

«No, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano» (v. 30). Il grano nel Vangelo è sempre simbolo della vita, dell’amore e quindi di Dio. Gesù sta dicendo di fare attenzione a voler distruggere ad ogni costo il male di cui ci sentiamo abitati, e presente in chi ci sta attorno. Perché facendo così, rischiamo di distruggere (sradicare) il bene che potrebbe derivarne qualora avvolgessimo il male nell’amore.

Mi spiego meglio. Il male che facciamo, non distrugge l’opera buona e bella di Dio ma – cosa paradossale – la rende ancora più buona e bella. Sì, perché questo male risulta l’occasione dell’intervento di salvezza di Dio, dato che Dio è solo amore, misericordia e perdono! Proprio in questo mio male che io vorrei a tutti i costi sbarazzarmi Dio rivela se stesso, la sua stessa essenza, il suo essere solo Amore! Per questo, se io distruggessi il male, distruggerei al contempo (“sradichiate anche il grano”) l’azione di Dio in me, perderei l’occasione di sperimentare l’azione di Dio in me, l’opportunità di conoscere Dio com’è veramente, dato che Dio lo conoscerò solo se sarò in grado di fare esperienza del suo amore nella mia carne.

Ovviamente tutto questo avviene anche nei riguardi del male (e di chi lo compie) fuori di me. Se io al posto di distruggerlo, eliminarlo lo avvolgo nell’amore, lo abbraccio, lo assumo in me (questo vuol dire rispondere al male con il bene) allora divento come Dio, faccio esperienza dell’amore, conosco Dio. Ecco perché è bene non eliminare il male, perché se perdo l’occasione di amare, perdo anche la possibilità di diventare come Dio, di diventare pienamente figlio, e quindi me stesso. Eliminare l’altro, riconosciuto come male, vuol dire eliminare me stesso, e l’immagine di Dio in me. Impedisco di compiermi come figlio. Questo vuol dire: «non succeda che sradichiate anche il grano».

Dio è tale nel momento in cui mi perdona, in cui entra dentro il mio male. In qualche modo Dio ha necessità del mio mondo malato, del mio peccato, per manifestare il suo essere vita e salvezza: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». (Gv 11, 4). Le nostre, e altrui, malattie esistenziali, non devono diventare occasioni di morte ma luogo dove l’amore e quindi la vita si possano manifestare.

Paolo ha cercato per una vita di distruggere la spina nella sua carne (cfr. 2Cor 12, 7ss), ma Dio gli ha rivelato: «lasciala stare in te, lasciala crescere in te, non toglierla perché quella è lì per farti memoria di chi sono io: potenza nella debolezza, bene nel male, salvezza dove tutto parla di distruzione». E l’apostolo s’è sentito finalmente la vita salvata: «Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze perché dimori in me la potenza di Cristo» (2Cor 12, 9b).

Il male non può far fallire il progetto di bene di Dio su di me e sul mondo, ma piuttosto accelerarlo e compierlo. Tutta la Bibbia ci rivela questa splendida quanto paradossale verità.

Giuseppe d’Egitto è stato odiato, maltrattato, venduto dai fratelli. Una volta in Egitto Giuseppe stesso rilegge dal punto di vista di Dio ciò che gli è successo e rivolgendosi ai fratelli ‘assassini’ esclama: «Non vi rattristate e non vi crucciate per avermi venduto quaggiù, perché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita. […] Dio mi ha mandato qui prima di voi, per assicurare a voi la sopravvivenza e per farvi vivere per una grande liberazione. Dunque non siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio» (Gn 45, 5-8).

Negli Atti degli Apostoli, i cristiani elevano una preghiera a Dio, rileggendo con sapienza i fatti tragici riguardati Gesù da poco successi a Gerusalemme: «Signore, davvero in questa città Erode e Ponzio Pilato, con le nazioni e i popoli d’Israele, si sono alleati contro il tuo santo servo Gesù, che tu hai consacrato, per compiere ciò che la tua mano e la tua volontà avevano deciso che avvenisse» (At 4, 27s.).

Il male che si è scatenato sul Figlio di Dio, il male che gli abbiamo fatto e che continuiamo a fargli, piuttosto che infliggergli morte e sancirne la fine, è occasione data a Dio per farci del bene, per mostrarsi vita e fecondità nei nostri confronti, proprio noi così soliti al male.

Il male non può sorprendere Dio dall’esterno. Pensando di distruggere la sua opera, sovvertire il suo volere, in realtà manifestandosi non fa altro che compiere ciò che di bene Dio aveva preordinato avvenisse.

Allora da qui una domanda: ci interessa di più scoprirci splendidi campi di grano, disinfestati, puliti, ‘santi’, o piuttosto storie che per quanto sporche e insulse hanno la splendida possibilità di fare esperienza di un Amore che viene a farci visita rivelando la sua e la nostra verità?

 Dunque, alla drammatica domanda della chiesa primitiva – e quindi di ogni cristiano – “cosa ne facciamo del male dentro e fuori di noi?”, Gesù risponde: quello dentro di te accettalo, ‘usandolo’ come occasione perché il bene (Dio) vi si possa manifestare, e quello fuori di te ‘avvolgilo’ nell’amore come occasione di fare il bene e di diventare sempre più simile al Padre (Cfr. Lc 6, 36)

È meglio distruggere il male nell’altro, che in ultima analisi coinciderà sempre con la distruzione dell’altro nella sua interezza, o piuttosto fare del suo limite, del suo peccato, della sua malattia infestante occasione perché io possa vivere nei suoi confronti da Dio, ovvero amandolo, perdonandolo, abbracciandolo, assumendo il suo male su di me?

Non c’è via di scampo, è il nostro atteggiamento col male – dentro e fuori di noi – che rivelerà chi siamo veramente.

O sarò come Dio che «fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5, 45), prendendo su di sé il male dell’uomo facendone occasione di bene, o come il maligno che vorrà sempre instaurare il bene perpetrando però sul mondo il male: «Vuoi che andiamo a raccoglierla?» (v. 28b).

Si pensi a ciò che i discepoli dissero a Gesù quando scorsero dei samaritani che non vollero accogliere il maestro nel loro territorio: «Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: “Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?”» (Lc 9, 54).

Perché questo è il modo di agire del male e del maligno, anche se ammantato da discepoli o santi: voler portare il bene, prodigarsi per il bene del paese, di una comunità, di una famiglia, attraverso il moltiplicarsi del male. Questa è stata ed è la logica di ogni crociata e di ogni guerra santa nella storia.

Nel Faust di Goethe viene chiesto al diavolo: ‘chi sei?’, ed egli risponde: «Sono parte di quella forza che /eternamente vuole il Male /e eternamente opera per il Bene».

Ma alla fine la mietitura verrà. Il giudizio di Dio si compirà! E cosa accadrà in quel momento? Le zizzanie saranno distrutte, consumate, bruciate. Attenti, solo il male che è presente nell’uomo e non l’uomo che ha fatto il male!

Qui non viene rimproverato l’uomo che si è trovato delle zizzanie nel suo campo! Lui non ne può nulla. Ma vengono bruciate tutte le zizzanie. Ovvero, il male che abbiamo compiuto, la nostra mancanza di misericordia, il nostro non essere riusciti a configurarci con l’amore del Padre, verrà distrutto dall’amore di Dio, che tutto salva (cfr. 1Cor 3, 11ss.). È il fuoco scaturito dalla croce di Dio, l’amore senza limiti di Dio, che brucia tutto il male che abbiamo fatto. Il male dunque sarà perdonato.

E cosa rimarrà alla fine? Solo il bene compiuto, che entrerà nel granaio del cielo, ovvero nel cuore stesso di Dio.