«Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. 31Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare. 32Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. 33Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero. 34Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose».(Mc 6, 30-34)
Gli apostoli vanno da Gesù e si confrontano con lui su ciò che hanno detto e fatto (v. 30).
Occorre avere un modello col quale confrontarsi per poter edificare la propria esistenza, come un muratore necessita di rifarsi al progetto di un architetto per costruire un edificio.
Dire e fare. La nostra vita si risolve, in fin dei conti, nelle azioni che facciamo e nelle parole che diciamo. C’è da chiedersi a questo punto, su quali radici affondano le nostre parole e i nostri atti. Chi sono i nostri architetti su cui confrontiamo e modelliamo la nostra vita, su cui ci giochiamo l’edificazione del nostro essere? Ognuno ha in fondo i propri maestri cui rivolgersi per attingere vita, i propri modelli di riferimento, dai divi della TV ai guru della finanza, per finire magari a un pio imbonitore di qualche trasmissione religiosa radiofonica.
Nel libro dell’Esodo, Dio si rivolge a Mosè in questo modo: «Guarda ed esegui secondo il modello che ti è stato mostrato sul monte» (Es 25, 40). Leggendo in chiave evangelica questo brano, c’è un altro monte – il Golgota – su cui è mostrato il ‘modello’ da contemplare per l’edificazione di ogni nostra opera possibile: la croce di Cristo.
Il modello a cui rifarci, e grazie al quale ogni costruzione cresce ben ordinata (cfr. Ef 2, 21), è la croce di Cristo, ossia l’amore che va fino alla fine, il dono di sé all’altro. Se le nostre parole, il nostro fare, le nostre opere, non hanno come modello, come progetto di riferimento l’amore, tutto è destinato a crollare. Dovremmo ogni tanto riuscire a fermarci e leggere la nostra vita paragonandola proprio con il Vangelo di Cristo – ciò che ha detto e fatto il crocifisso – e chiederci se i nostri pensieri, i nostri incontri, le nostre azioni, le nostre relazioni, hanno come pietra di paragone quell’Amore che sa morire per donare vita all’altro.
Subito dopo questo incontro, Gesù invita i suoi ad «andare in disparte per riposarsi un po’» (v. 31). Questo riposo cui Gesù invita è importante, non qualcosa di meramente fisico. Si tratta nientemeno che del ‘riposo del cuore’. L’uomo ha necessità di trovare un ‘ubi consistam’, un luogo dove trovare finalmente il senso, che gli permetta di fermarsi dalla sua folle corsa, e di fare esperienza della sua vera identità. Un posto dove sentirsi finalmente a casa, e potersi chiedere, col grande Thomas Stearns Eliot: «Dov’è la vita che abbiamo perduto vivendo?».
Il Vangelo di oggi identifica questo luogo, non tanto con un posto fisico, quanto con uno stile di vita.
L’episodio raccontato da Marco è posto tra due banchetti, quello consumato nel palazzo di Erode sul Macheronte, raccontato nei versetti immediatamente precedenti (vv. 21-29), e quello che verrà raccontato nei versetti successivi, la ‘moltiplicazione dei pani’ (vv. 35ss.).
Gesù invita i suoi a compiere un passaggio di mentalità. Uscire da uno stile di vita fondato sul potere, sull’avere, sul dominio e sulla violenza, proprio di Erode, il quale può solo indire pranzi dove l’unica portata è rappresentata da un vassoio su cui è posta la testa decapitata di Giovanni il Battista. Chi fa proprio questo modo di vivere, può solo nutrirsi di cadaveri, e dispensare morte.
Attraverso il deserto (richiamo forte all’Esodo pasquale), dove Gesù cerca di condurre i suoi, si compie quel passaggio (pasqua appunto) da una mentalità all’altra, da quella di morte che ha bisogno di far morire per vivere, di conquistare per avere, di far violenza per star bene a quella che si gioca invece sul dono di ciò che si ha, del morire per far vivere, del perdere per poter trovare vita in abbondanza, e del «farsi pane alla fame degli altri» (David Maria Turoldo).
Dunque l’unico luogo di vita, di pace, dove il cuore può finalmente riposare, consiste nel vivere in un certo modo. È vivere secondo il principio dell’amore, unica possibilità di entrare nella nostra ‘terra promessa’.
È sempre l’altro, il riposo del mio cuore, il segreto del senso e della felicità, la mia ultima – e unica – terra promessa.