«Avendo udito questo, Gesù partì di là su una barca e si ritirò in un luogo deserto, in disparte. Ma le folle, avendolo saputo, lo seguirono a piedi dalle città. 14Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, sentì compassione per loro e guarì i loro malati.15Sul far della sera, gli si avvicinarono i discepoli e gli dissero: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare». 16Ma Gesù disse loro: «Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare». 17Gli risposero: «Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!». 18Ed egli disse: «Portatemeli qui». 19E, dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla. 20Tutti mangiarono a sazietà, e portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene. 21Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini» .
L’uomo è essenzialmente un viandante, ‘homo viator’.
Non nasciamo uomini, lo diventiamo. Diventiamo noi stessi intraprendendo quel viaggio che consiste nel passare dal non essere all’essere. Dalla fuga verso l’esterno di noi, all’interno di noi stessi. In fondo questo è l’unico viaggio in grado di compierci. «In te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas» diceva Agostino. «Rientra dentro di te, è nella profondità di te stesso che abita la verità».
Siamo costantemente proiettati a cercare all’esterno, quella presenza in grado di dirci chi siamo. E c’inganniamo di trovarla nel frastuono, nel correre, nell’agitazione, nelle forti emozioni… Ma la presenza non sta né nel vento impetuoso, né nel terremoto, né nel fuoco dice la Scrittura, essa è celata nel sussurro di una brezza leggera, in una ‘voce di silenzio’ dentro di noi (cfr. 1Re 19, 11s.).
Il brano di Vangelo odierno ci parla di folle che lasciano la città per recarsi in un luogo desertico (v. 13). Apparentemente pare compiersi un passaggio da un luogo di vita ad un luogo di morte. Invece è proprio vero il contrario. È nel deserto che si compie quell’esodo esistenziale in grado di farci passare dalla morte alla vita. È nel deserto che si può ascoltare la voce di silenzio che ci suggerisce la nostra vera natura, di cosa siamo fatti, e per cosa siamo fatti. Quanto abbiamo bisogno di un luogo e di una voce che ci facciano memoria in cosa consiste la nostra profonda verità.
Il Mahatma Gandhi amava dire: «Non ho bisogno di andare lontano a cercare la grotta sacra, la porto dentro di me».
È questo il viaggio, il pellegrinaggio più lungo, faticoso e costoso che possiamo intraprendere, quello verso il nostro deserto interiore. Quel deserto dove tutto cade, perde consistenza, dove ormai non rimane più nulla, ma proprio per questo è possibile scorgervi l’Unico e l’essenziale. Quando crolla tutto ciò che è superfluo, rimane il necessario.
«La solitudine è il luogo della purificazione e della trasformazione, della grande lotta e del grande incontro. La solitudine non è solo un mezzo in vista di un fine. È il luogo dove Cristo ci rimodella a sua immagine e ci libera dalle ingannevoli coartazioni del mondo. Insomma, è il luogo della nostra salvezza: quindi il luogo dove vogliamo condurre tutti coloro che stanno cercando la luce in questo mondo oscuro» (H. J. M. Nouwen).
È in questo deserto interiore, che scoprirò anzitutto che vivo di ciò che ricevo e non tanto di ciò che faccio e che do, perché in fondo, ciò che ci fa vivere è sempre qualcosa che ha a che fare con la grazia, con un dono ricevuto, e non opera di conquista: l’aria che respiro, l’acqua che fa vivere, l’amore che nutre il cuore non li si produce, ma soltanto li si accoglie, come un miracolo.
In questo deserto interiore, finalmente povero e mendicante, poserò le armi della difesa e della conquista, e come soldato sfinito da terribili quanto inutili battaglie, mi stupirò di un Amore che mi si farà prossimo, si curverà su di me, mi curerà le ferite e mi riporterà finalmente a casa. E comprenderemo in quell’attimo di essere guariti dalla nostra più terribile malattia, ovvero pensare che occorra ‘comprare’ sempre qualcosa per poter vivere: «Congeda la folla perché vada a comprarsi da mangiare» (v. 15b). La Parola ci guarisce dalla logica dell’accumulo, del fagocitare per vivere, facendoci comprendere che per vivere veramente occorre riconoscere che tutto è dono, e che tutto va donato, fossero anche ‘cinque pani e due pesci’, un nulla. Ma la somma di 5 + 2 dà 7, il numero della completezza, del compimento, della totalità. Anche il poco ricevuto, se accolto e ridonato nell’amore ha il sapore d’infinito.
Quando avremo fatto nostra questa logica del tutto ricevere e del tutto donare, potremo finalmente, noi stanchi pellegrini del tempo e col cuore appesantito, sederci sull’erba (v. 18), simbolo del giardino del paradiso. E faremo festa, perché nel cuore il segreto dell’umano vivere: nel dono di noi nelle mani dell’altro possiamo trasformare le nostre città, fondate sul fratricidio e sul potere, in luogo paradisiaco. Sperimenteremo finalmente ciò che è in grado di saziare la vita (v. 20), e la gioia sarà immensa, perché ce ne sarà per tutti e per sempre: «portarono via dodici ceste piene» (v. 21), dove il dodici simboleggia ‘le dodici tribù d’Israele’ e quindi il ‘per tutti’, e dodici sono i mesi dell’anno, e quindi il ‘per sempre’.