OMELIA 1a Domenica di Avvento anno B

«Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. 34È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare. 35Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; 36fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati. 37Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!». (Mc 13, 33-37)

 

 

È interessante che nella prima domenica di Avvento, venga proposto un Vangelo in cui il tema dominante è quello dell’attenzione: «Fate attenzione, vegliate (quattro volte), che non vi trovi addormentati».

Questo invito pressante all’attenzione, allo stare svegli, s’inserisce al termine del breve discorso escatologico del Vangelo di Marco. Questo vuol dire che l’attenzione al qui ed ora della vita ha a che fare con ciò che avverrà nell’aldilà. È un tutt’uno, senza soluzione di continuità.

 

Ma cosa vuol dire ‘prestare attenzione’, ma soprattutto ‘a che cosa’?

 

Occorre prestare attenzione anzitutto a ciò che siamo. Semplicemente a questo: ciò che ci abita dentro e ciò cui siamo chiamati a essere. È l’attenzione alla propria verità. È impedire a noi stessi di morire di trascuratezza, per aver disatteso al nostro compito esistenziale.

Letteralmente nel testo non abbiamo ‘fate attenzione’, ma ‘guardate’. Siamo chiamati a guardare dentro noi stessi, per scorgervi quella vita che reclama di esplodere, di sbocciare alla pienezza. Dentro di noi c’è quel tesoro (Mt 13, 44), che se scoperto e valorizzato rende ricca, feconda e sensata la nostra vita.

Si tratta del potere di cui si parla nella breve parabola incastonata nel nostro brano: «È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi» (v. 34).

Abbiamo un potere dentro di noi che chiede di essere scovato e poi elargito.

Nel Vangelo, per ‘potere’ s’intende la stessa vita di Dio, e dunque il potere dell’amore, l’unico in possesso di Dio e l’unico messo in atto da Gesù.

Ecco cosa dobbiamo guardare, a cosa dobbiamo porgere attenzione: alla nostra verità, a ciò che ci definisce. Siamo possibilità amanti, che compiranno se stesse solo nella modalità dell’amore. Se nell’oggi vivessimo attraverso una modalità diversa dall’amore, non saremmo veri, non saremmo noi stessi. Commetteremo un tradimento alla bellezza che siamo chiamati a realizzare attraverso la nostra vita. Questo è il peccato: tradimento della propria verità.

 

La vita fallita sarà quella che ha disatteso la propria vocazione: vivere una vita addormentata (v. 36). Quando tornerà il padrone di casa (v. 35), fuori di metafora, quando ci toccherà la morte biologica, l’unica possibilità di fallimento sarà farci trovare addormentati, non in costruzione di noi stessi; distratti, ovvero tirati qua e là da ogni luce che promette di compierci. Vocazione disattesa.

L’illuminazione non sta nel ricevere luci dall’esterno, ma dilatare quella interiore che ci è stata posta dentro da sempre. È prendere consapevolezza che Cristo, la Luce abita già nei nostri cuori: «Esaminate voi stessi, se siete nella fede; mettetevi alla prova. Non riconoscete forse che Gesù Cristo abita in voi?» (2Cor 13, 5; Rm 5, 5; Ef 2, 22; 1Cor 3, 16; 2Cor 1, 22; 4, 6; Gal 4, 6). O se vogliamo la questione è compiere un cammino di risveglio, di uscita dal torpore esistenziale nel quale siamo continuamente immersi.

 

Ma non basta, per quanto essenziale, compiere questo lungo cammino di consapevolezza della propria verità. Occorrerà agire poi di conseguenza. La nostra potenzialità va compiuta; il tesoro una volta scoperto (cfr. Mt 13, 44) ci arricchisce, e vivremo nel mondo attraverso l’elargizione di questa ricchezza di cui finalmente siamo divenuti consapevoli.

Vegliare vuol dire tenere gli occhi aperti. Le civette, con i loro grandi occhi, vedono chiaramente anche nella notte. È questa la vigilanza cui ci richiama il Vangelo: vedere nella notte ciò che altri non vedono. Scorgere una Presenza anche laddove tutto pare avvolto dal buio, un significato dove tutto pare non senso, un amore anche dove tutto pare inimicizia e odio.

Anzi, il Vangelo ci richiama a qualcosa ancora oltre: al dovere di scorgere la Presenza nei presenti accanto a noi. Perché ora il nostro Dio è presente nell’altro che mi sta accanto. Ci vogliono occhi speciali per poter scorgere tutto questo: «quello che avete fatto ad uno solo di questi miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me» (Mt 25, 40).

 

In questa domenica comincia il tempo di Avvento, un periodo di attesa al grande evento dell’incarnazione.

Col Vangelo di oggi forse comprendiamo meglio cosa vuol dire attendere il Signore che viene nel Natale: accogliere qualunque fratello che mi viene incontro, perché ‘vedo’ in lui la presenza di Cristo. Vigilare è proprio questo: prestare attenzione a come Dio si fa presente nel mio quotidiano nelle persone a me accanto, soprattutto in quelle maggiormente segnate dal limite e dall’oscurità. A questi ‘sacramenti’ della Presenza di Dio, si comincerà far dono del tesoro di cui siamo stati colmati e di cui abbiamo fatto la scoperta, la potenza che abita in noi, quella dell’amore.

Attendere il Signore che viene, in questo periodo di Avvento significherà dunque tendere la propria vita fuori del nostro io al fine di raggiungere Cristo in tutti i poveri Cristi che ci stanno affianco, e che chiedono di farli rinascere. In questo modo si compirà l’unico vero Natale che ha senso celebrare duemila anni dopo il Natale di Betlemme: il mio! È facendo rinascere gli altri che contribuirò a far nascere nuovamente me stesso. L’altro, riconosciuto e amato, è colui che opera alla mia rinascita.

Anzi, potremmo dire che Dio si farà incontro, nascerà nella mia vita nella misura in cui io andrò incontro all’altro. Più mi prenderò cura dell’altro più Cristo si farà presente, in quanto l’amore al fratello affretta la sua venuta. Maggior presenza di bene c’è nel mondo, maggiormente si affermerà su questa terra il suo Regno, la sua presenza, la sua azione.

 

Comprendiamo a questo punto il perché questo discorso tutto riferito al qui ed ora ha a che fare con l’aldilà, essendo un discorso apocalittico. Gesù invita in maniera molto forte a porre attenzione alla nostra vita quotidiana, al momento presente. Invita ciascuno di noi a impegnarsi attraverso il potere dell’amore a rinascere dalle nostre stesse ceneri. Chi vive così e non da addormentato, chi vive di una vita rinata non potrà più conoscere la morte, per cui oltrepasserà il limite massimo dell’esistenza umana, e continuerà a vivere per sempre.

 

 

È interessante notare come questo processo di consapevolezza della presenza che ci abita, è presente nella grande tradizione religiosa dell’Estremo Oriente. Per l’Induismo ad esempio, la vita consiste nella scoperta della Realtà ultima, dinanzi alla quale si arrestano anche le parole e il pensiero. A questa Realtà, gli antichi han dato il nome di Brahman, l’Uno senza un secondo, presente nella “grotta” segreta del nostro cuore come Ātman, il Sé, il principio della Coscienza.

«Se è vero che l’ Ātman-Brahman non può essere conosciuto dall’uomo a causa degli angusti limiti della mente di quest’ultimo, è altrettanto vero che egli può farne esperienza al termine di un processo ascetico di disidentificazione dalla propria individualità, ossia da quegli aspetti del proprio essere che vengono comunemente definiti con l’espressione “io e mio”. Si tratta di un’esperienza del tutto particolare, grazie alla quale l’uomo si “rende conto”, “s’accorge” di non essere altro che Ātman: un’esperienza di risveglio (bodhi) e di consapevolezza, con cui si scioglie definitivamente ogni legame col mondo del divenire (saṃsāra). In questa scoperta della propria vera natura, che è una natura divina, consiste la ‘conoscenza’ (jnāna), che coincide con la liberazione (mokṣa, mukti), fine ultimo di ogni cammino spirituale.

Nella luce abbagliante dell’esperienza ultima il mondo rivela tutta la propria illusorietà e si palesa come il frutto di un inganno, o di un miraggio, al quale il pensiero indiano ha dato un nome che ha ormai assunto, anche nell’orizzonte culturale europeo, una straordinaria suggestione, pur nel frequente fraintendimento di cui è fatto oggetto: si tratta della māyā, che, come un velo, nasconde la visione dell’unica Realtà agli occhi di chi ancora dorme nel sonno dell’ignoranza (avidyā)». (Carracchi – Piano, Ad antiche fonti).