«E subito lo Spirito lo sospinse nel deserto 13e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano .14Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, 15e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo». (Mc 1, 12-15)
Gesù, dopo aver ricevuto il battesimo (Mc 1, 9-11) – evento durante il quale il Padre ha posto in lui tutto il suo compiacimento: «Tu sei il Figlio mio, l’amato» – viene subito sospinto (letteralmente catapultato) nel deserto, per essere tentato. Attenzione: viene sospinto nel deserto dallo Spirito! (v. 12), ovvero da Dio stesso!
Raggiunti dall’amore, siamo anche spinti fuori dall’amore medesimo, per immergerci nel nostro deserto esistenziale e lì amare i fratelli. Paolo dirà nella Seconda Corinzi: «L’amore di Cristo ci spinge» (v. 14). Raggiunti dall’amore, abilitati attraverso il battesimo all’amore, se non ci giochiamo per quello che siamo nel nostro quotidiano, fatto di relazioni, di incontri e di scontri, come realizzare compiutamente ciò cui siamo stati chiamati a diventare?
Ecco perché è necessario dopo il momento dell’essersi scoperti figli amati, dopo il momento della comunione – compresa quella eucaristica – dopo la preghiera, immergerci nel nostro deserto quotidiano! La vita di Dio che si fa parte di me, ha come primo frutto, non tanto quello di contemplare l’avvenuta esperienza del Dio in me, ma piuttosto quello di espellermi fuori dal mio piccolo io egoistico. Ogni esperienza mistica di Dio se non si trasforma immediatamente in esperienza ex-statica (fuori di sé) è autodistruttiva.
Il Dio in me assume i contorni del Dio comunicato all’esterno di me. Più cresco nella comunione con Dio, maggiormente sperimento la fraternità con gli uomini.
Quello di chiudersi in un intimismo spirituale fine a se stesso, è un rischio che Gesù stesso ha corso. Col battesimo ha ricevuto l’attestazione dal Padre stesso di essere Figlio, l’amato. Ma da quel preciso istante ha dovuto farsi fratello di tutti i figli del Padre per diventare Figlio in pienezza, attraverso un cammino fatto di tentazioni, che si sarebbe completato solo sulla croce – comunione massima con l’uomo – col grido: «È compiuto!» (Gv 19, 30).
Il verbo tentare in greco è peiràzo, la cui radice peira, significa tentativo, prova, esperienza e conoscenza. Questo sostantivo deriva a sua volta dal verbo peiro, che significa attraversare da parte a parte, come una punta, ed ha la stessa radice di esperimentare, esperto, pericolo e perire.
Cosa vuol dire tutto ciò? Si diventa esperti della vita – compiuti, maturi e figli – solo attraverso la “tentazione”, ossia attraversando “da parte a parte” la situazione difficile, la prova che ci si presenta ogni istante. E quanto dura questo apprendistato della libertà? Una vita intera, simboleggiato qui dal biblico ‘quaranta giorni’.
La vita è un’immane palestra, in cui ci è dato di divenire esperiti, ‘periti’ attraverso il bene, al fine di costruirci come persone umane complete, libere nella verità. Chi non vive così, semplicemente perisce.
La realtà è quella che è. Di per sé non è né buona né cattiva. Dipende come l’affrontiamo, come l’attraversiamo. Cosa decidiamo dinanzi ad essa. Ecco, vivere significa semplicemente addentrarci, attraversare la realtà, e poi decidere come vivere ogni preciso istante: se nella modalità del dono, della cura, della benevolenza, della pazienza, della ricerca del bene dell’altro, oppure nella modalità del possesso, dell’interesse personale, del tornaconto immediato, dell’egoismo e della violenza.
Decidere significa etimologicamente tagliare, recidere, affermare fortemente da che parte stare. Certo che questo comporta anche una buona dose di sofferenza: tagliare non è mai un’operazione indolore. Ma occorre farlo: è l’unico modo per essere pienamente liberi. È libero solo chi è in grado di scegliere, e ovviamente di scegliere il bene.
Il problema è che si decide sempre meno. Ci si astiene, forse per paura di soffrire, di far soffrire, di schierarsi da una parte sola e di recidere ciò che non va. La conseguenza è semplicemente vivere da rinunciatari, e quindi semplicemente non vivere. Trascinarsi, sempre meno liberi, salvo poi auto-ingannarsi dicendo che tutto va bene.
Se non c’è fatica, non c’è crescita.
Il testo dice che Gesù stava con le bestie selvatiche (v. 13b): mettendosi dalla parte del bene, dicendo di no alla logica del male, del potere, del successo, dell’egoismo la conseguenza sarà quella di trasformare il proprio deserto quotidiano in una sorta di paradiso, come profetizzato da Isaia:
«Il lupo dimorerà insieme con l’agnello;
il leopardo si sdraierà accanto al capretto;
il vitello e il leoncello pascoleranno insieme
e un piccolo fanciullo li guiderà» (Is 11, 6)
Ecco dove porta la lotta interiore, ovvero quella che ci fa optare per una vita da figli capaci di farsi fratelli: ad una riconciliazione con tutto, col mondo di Dio e con la natura, col creato e coi fratelli. Questo è il messaggio del Vangelo: non occorre più affannarsi alla ricerca di paradisi artificiali, o perdersi nell’attesa di un futuro migliore. Il tempo è compiuto (v. 15). Tutto è già dato e tutto è già possibile ora. La trasformazione del presente è possibile qui e in questo momento, nella misura in cui ci convertiamo, ovvero volgiamo la nostra vita alla possibilità del bene e credendo che questa modalità è anche l’unica in grado di poter gridare alla fine della nostra avventura umana: «È compiuto!»: sono diventato pienamente me stesso!