«”Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”.52Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”. 53Gesù disse loro: “In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. 54Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. 55Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. 56Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. 57Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. 58Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno”». (Gv 6, 51-58)
Sono anni che ascolto madri e pie nonne – preoccupate le prime, angosciate le seconde – lamentarsi riguardo figli e nipoti che da tempo si sono allontanati dalla pratica religiosa, non frequentando più la Messa domenicale e snobbando serenamente sacramenti e addentellati.
Non mi è mai capitato invece di ascoltare, con altrettanto senso di angoscia, madri e vecchie signore domandarsi quale sia il livello di onestà profuso sul posto di lavoro dai propri figli, se il loro patrimonio è accumulato solo per arricchire il loro ristretto nucleo famigliare o piuttosto per trasformarlo in mezzo di condivisione con i poveri e riutilizzato magari per creare nuova ricchezza a beneficio di tutti; se le banche da loro utilizzate sono ad esempio colluse con il commercio infamante di armi; non le vedo poi così preoccupate pensare che alle prossime elezioni i loro cari figlioli e nipoti appoggeranno un partito razzista e xenofobo perché stanchi di orde di immigrati e rifugiati che invadono ‘casa loro’ mettendo in crisi la dovuta serenità; non le ho mai viste scandalizzate perché i loro ragazzi non fanno spazio, nelle loro comode case, a quei disgraziati che non hanno più un tetto sotto cui ripararsi; e non le ho mai sentite interrogarsi se nella scorsa dichiarazione dei redditi i loro cari figlioli han denunciato proprio tutto ma soprattutto il giusto…
Possibile che la carne e il sangue di Dio sia solo quello imprigionato in una cella dorata di un tabernacolo e quello consacrato su linde tovaglie bianche? O non piuttosto la carne agonizzante nei barconi della morte, negli asfittici centri di accoglienza, nelle carceri sovraffollate, nella carne dei bambini abusati, delle donne maltrattate, degli psichiatrici derisi, degli operai derubati, dei precari maltrattati? Ha ancora senso, mi domando, turbarci tanto dinanzi all’ormai irrisoria partecipazione al precetto domenicale, o non è piuttosto il tempo d’indignarci con tutte le forze dinanzi ai tanti poveri cristi che la cronaca ogni giorno ci sciorina dinanzi?
Ecco cosa vuol dire, credo, ‘mangiare la carne e bere il sangue di Dio!’: Entrare in relazione con la sua persona nel nostro povero quotidiano: toccare, guardare, curarsi della carne e del sangue di tutti i disgraziati con cui ha voluto identificarsi nella storia, perché ancora una volta dagli altari delle nostre chiese egli continua a gridarci che «tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 40).
Questo è in ultima analisi, l’unica possibilità di vivere questa nostra breve vita in maniera eterna, ossia felice e realizzata, e in una compagnia – quella di Cristo – in grado di non far sperimentare la morte per sempre.