«Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; 16se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. 17Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano. 18In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo».
Il Vangelo di questa domenica, è tratto dal capitolo diciottesimo di Matteo, il quarto grande discorso di Gesù dei cinque presenti in Matteo.
È il discorso denominato ‘ecclesiale’, tutto dedicato alla fraternità, ai rapporti vicendevoli che si vivono in una comunità – familiare, religiosa, civile, lavorativa che sia – dato che non ci si salva da soli ma insieme, in quanto l’altro è sempre la strada più breve per giungere alla comunione con Dio.
I versetti in questione, riguardano un particolare atteggiamento del vivere comune, denominato correzione fraterna. Perla preziosa perché il vivere in comunità possa risultare fecondo, ma al contempo atteggiamento molto delicato, tanto che Gesù pare porlo a conclusione, o apice, di un lungo cammino di apprendistato del vivere l’arte della relazione. Infatti la correzione fraterna risulterà foriera di vita, utile per un vivere veramente sensato, solo a patto che si sia giunti a considerare l’altro: il più importante della comunità (primo brano del suddetto capitolo: vv. 1-4); se s’è fatto di tutto per non scandalizzarlo (vv. 6-10); se si è andati a cercarlo sin nel deserto perché smarritosi (vv. 12-14); se si sarà disposti a perdonarlo infinite volte (vv. 21-35). Insomma, se l’altro arriverai a non giudicarlo, a non condannarlo e se lo perdonerai di tutto cuore, allora potrai permetterti anche il lusso di correggerlo.
Se la correzione fraterna invece giungesse anche solo un attimo prima di questo incredibile percorso, se non si fosse fatto di tutto per crescere sino alla piena maturità nell’arte della relazione, allora il permettersi di correggere l’altro potrebbe rivelarsi dannoso se non devastante.
Si può fare molto del male con l’intenzione di far del bene, perché il dire le cose a fin di bene, potrebbe essere il tentativo diabolico rivestito di luce, di mostrare all’altro i suoi errori, per inchiodarlo alle sue colpe e per umiliarlo nella sua dignità.
L’Antico Testamento (Dt 19, 15) invitava, in caso di una mancanza del fratello, di ammonirlo pubblicamente; Gesù al v. 15 invita invece di farlo «fra te e lui solo». Ci vuole molta delicatezza nelle relazioni, soprattutto dinanzi alla fragilità dell’altro, affinché chi ha sbagliato, chi è caduto possa essere recuperato nella sua piena dignità, impedendo che si trasformi in cibo dato in pasto alla critica e alla curiosità morbosa della comunità.
L’altro, indurito a causa del suo male, può essere sciolto solo attraverso l’amore. La rabbia, la durezza del giudizio, l’intransigenza non provocherà altro che la chiusura ulteriore di quell’uomo, condannandolo ulteriormente dentro il guscio della propria colpa. Gesù dinanzi all’uomo segnato dal male e dalla colpa commessa è sempre stato intransigente nei confronti del male, condannandolo, ma perdonando, recuperando e amando chi l’ha commesso. Il medico distrugge il cancro riportando alla vita chi ne è segnato.
Interessante l’annotazione al v. 15, Gesù dice che quando l’altro commetterà una colpa contro di te, devi essere tu ad andare verso lui. Fai tu il primo passo, come Dio l’ha fatto – e continua a farlo ogni istante – nei tuoi confronti, venendoti a cercare quando ti trovi smarrito. Questo movimento dell’amore Gesù lo ha già ricordato in un altro grande discorso, il primo, detto della montagna: «Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono» (Mt 5, 23s.): se l’altro ti ferisce, non accostarti all’altare pensando di trovarvi Dio, ma va’ a cercare quel tuo fratello che ti ha fatto del male, ristabilisci con lui la fraternità infranta e in quel momento incontrerai anche il tuo Dio. Se non si vive la comunione col fratello, non ci s’illuda di poterla vivere con Dio.
La correzione fraterna è un rischio. Riportare l’altro nell’alveo della verità, del bene, della possibilità di ricostruirsi – questo significa guadagnare il fratello – è sempre un rischio. Anzitutto perché l’altro potrebbe non accettare questo, infatti Gesù dice: «Se ti ascolterà…» (15b), ma soprattutto perché normalmente tendiamo a compiacere l’altro per un quieto vivere, per non contristarlo e portarne le conseguenze.
Decidere di mettergli dinanzi agli occhi il male commesso, dirgli qualcosa che non le farà piacere ma che può invece fargli bene, vuol dire compromettersi, rimetterci anche la faccia, essere anche fatto oggetto di derisione, ritorsione e violenza. Per cui bisogna essere molto liberi per cercare il bene dell’altro; una libertà nata dalla verità e vittoriosa sul proprio egoismo che invece ci suggerirebbe di starcene tranquilli.
Non è fuori luogo ricordare che amare non significa dire sempre: ‘tutto va bene’. Non vuol dire coprire tutto. Ci son cose che non vanno bene, e come tali vanno denunciate, e amare significa proprio questo, portare alla luce il sommerso, per salvarlo. Tacere, occultare vuol dire collusione. Quando si verificano prevaricazioni, ruberie, sopraffazioni soprattutto sui più deboli, le cose vanno dette e denunciate.
Dinanzi al male perpetrato sui deboli o ci s’indigna o si è collusi. Non vi è una terza via. Amare è chiamare le cose col proprio nome. Questo sarà anche il primo passo del perdono: fare e dire la verità nella carità.
Si è detto sopra che può darsi l’altro non accetti, non ascolti. Cosa fare? Gesù invita al v. 16 di tentarle tutte… Ma se ancora l’altro s’ostina a non riconoscere e recuperare il male commesso: «sia per te come il pagano e il pubblicano» (v. 17). Cose vuol dire Gesù?
I pagani e i pubblicani nel Vangelo son coloro per i quali Gesù ha dato la vita. Son coloro che non sanno di essere amati, per cui il mio atteggiamento dovrebbe essere mostrar loro il mio amore che va fino alla fine. Per cui, gli elementi più difficili, i casi che paiono non recuperabili, i recidivi in una comunità (civile o religiosa che sia, ricordiamolo), non vanno mai abbandonati, trascurati o condannati. Son proprio quelli da amare più degli altri!
Gesù ricorda a questo punto, a ciascuno di noi, che tutta la comunità, ogni suo membro ha il medesimo potere di Pietro e quindi di Gesù che glielo ha conferito, ovvero il potere di sciogliere, o se vogliamo, di perdonare. Sì, perché l’unico potere che Dio possiede non è quello di legare, ma di sciogliere. Rompere le catene inique che tengono soggiogato l’uomo: «…mi ha mandato a portare ai poveri un lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi» (Lc 4, 18); potere di perdonare, recuperare, salvare, riportare alla vita, risuscitare l’uomo.
Gesù ci mette in guardia dal non legare l’altro nei nostri lacci, fatti di giudizi e pregiudizi, di non inchiodarlo ai suoi sbagli, alle sue fragilità, di non soffocarlo con bassi moralismi. Occorre prestare molta attenzione a non legare l’altro con nessun legaccio, perché ciò che è legato rimane legato per sempre, questo è il significato profondo di: «tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo» (v. 18a). Giudicare una persona per il male commesso è ucciderla; identificare l’altro con il suo sbaglio è ridurlo al suo sbaglio, mentre l’uomo supera infinitamente sempre se stesso.
Siamo chiamati ad agire come Dio che scioglie le catene inique, toglie i legami che imprigionano, rimanda liberi gli oppressi spezzando ogni giogo (cfr. Is 58, 6).
Ma per vivere alla maniera di Dio è solo opera della grazia, dell’opera sua nella nostra opera; per questo che Gesù si premura di aggiungere questa frase: «Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono in mezzo a loro» (v. 20). Giungere a saper sciogliere l’altro dalle mie interpretazioni spesso false e riduttive, dai miei biechi pregiudizi, per poterlo finalmente accettare in quanto altro, è dono dello Spirito, che illumina l’altro nella sua luce preziosa, e illumina me insegnandomi cosa fare in ogni istante per il suo bene.