«Una folla numerosa andava con lui. Egli si voltò e disse loro: 26“Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. 27Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.
28Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? 29Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, 30dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”. 31Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? 32Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace.33Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo». (Lc 14, 25-33)
Molta gente sta seguendo Gesù (v. 25); egli se ne accorge e con fermezza pronuncia parole severe: ‘Se mi si vuol seguire, diventare miei discepoli, occorre amarmi più di tutti gli amori – compresa la vita stessa – e prendere su di sé la croce del vivere’.
La traduzione precedente della Bibbia, quella del 1974, rendeva questo passo in maniera più letterale: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo».
Non si diventa discepoli a forza di volontà, o attraverso atti morali e religiosi, ma dando spazio alla sua opera in noi, o se vogliamo, lasciando che la sua Presenza trasformante, già presente in noi, ci trasfiguri in lui, conducendoci così al nostro pieno compimento.
Perché lui possa essere questa Presenza vivificante, che trasforma servi in discepoli, occorre ‘odiare’ ovvero staccarsi, prendere le distanze da ogni tipo di ‘potere’ capace d’inficiare il nostro vero Sé.
È molto facile infatti che madri, padri, mogli, figli… – simboli delle affezioni di ogni genere – impediscano alla nostra vita di compiersi nella sua verità, impedendoci di godere della libertà sufficiente e necessaria per indirizzarci al compimento della nostra vita. Perché in fondo ‘essere discepoli’ del Cristo, significa accettare di incamminarci verso la nostra piena umanizzazione. Ma quanti legami – scelti o subiti – ci ostacolano in questo compiersi di umanità! E non importa se siano provocati da un filo di seta o da una catena, sempre di legami si tratta.
Gesù insiste molto su questa esigenza di staccarsi da tutto ciò che impedisce di vivere veramente.
In un altro passo del Vangelo (cfr. Lc 9, 58), Gesù invita i suoi ad abbandonare da una parte ‘tane e nidi’ – chiari simboli della figura materna – e quindi ogni protezione e sicurezza, dall’altra il proprio ‘padre’, simbolo di tutte le personalità forti e autoritarie che un po’ per soggezione e un po’ per sudditanza, si è permesso loro di esercitare un potere che di fatto ha impedito a trasformarci in ciò che si era chiamati ad essere.
Finalmente liberati da ogni possibile presenza, pensiero, immagine ‘riempitrici di vuoti’, ci troveremo nella disposizione di essere finalmente ‘assunti’ e immedesimanti dall’unica Presenza. In questo distacco-odio-vuoto, si sarà giunti a frantumare, dissolvere il proprio falso sé, nella consapevolezza che laddove non c’è più l’io, lì c’è Dio.
E qui con ‘vuoto’ non viene inteso l’assenza di qualcosa, ma piuttosto purezza, piena disponibilità all’accoglienza della luce, come un diamante – che certamente non vuoto – è pura possibilità a lasciarsi attraversare dalla luce.
Per cui il discepolo di Cristo, non è mai l’uomo e la donna che han scalato a fatica una meta seppur divina, ma una storia squisitamente umana che nella sua verità-povertà ha accettato di lasciarsi ferire dalla luce, per poi stupirsi di essere stata trasformata nientemeno che in Dio.