OMELIA 2a Domenica di Avvento anno B

«Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio.

2Come sta scritto nel profeta Isaia:

Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero:
egli preparerà la
tua via.
3Voce di uno che grida nel deserto:
Preparate la via del Signore,
raddrizzate i suoi sentieri,
4vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. 5Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati. 6Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico. 7E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. 8Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo
». (Mc 1, 1-8)

 

Il Vangelo di questa seconda domenica di Avvento è l’incipit del Vangelo secondo Marco. Parole di una potenza deflagrante: «Principio del Vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio» (v. 1). Nella traduzione CEI, in realtà, la prima parola che troviamo non è principio, bensì ‘inizio’; ma in greco si ha arché, lo stesso termine che troviamo all’inizio della Bibbia: «In principio Dio creò il cielo e la terra» (Gn 1, 1). Ebbene, Marco vuole comunicarci che con Gesù – di cui Marco si appresta a raccontarne la parola e l’opera – si è verificato un inizio nuovo, una nuova creazione. Col Natale, la creazione si è ri-creata; è apparso nel mondo il principio di un mondo nuovo, non più segnato dalla schiavitù del male.

Gesù è veramente il principio da cui scaturisce qualcosa di totalmente nuovo e di bello. Una sorta di ricreazione della vita, di ogni cosa, di ogni uomo.

Per Marco Gesù è il Vangelo di Dio, colui col quale se si entra in relazione, la vita conoscerà quella felicità così forte che non avrà mai fine.

 

E cosa fa questo Dio incarnato nella storia degli uomini? Come agisce concretamente, tanto da ricreare la storia e l’uomo stesso?

Marco lo dice attraverso due passi recuperati dall’Antico Testamento, uno di Isaia e l’altro del profeta Malachia (nel testo entrambi sono attribuiti al solo Isaia),  ambedue riguardanti la giustizia. Il Dio di Gesù Cristo non si rassegna all’ingiustizia: laddove l’uomo soffre per l’ingiustizia, là è presente Dio. Il Vangelo è il farsi presente dell’amore che si prende cura in ogni situazione dove l’uomo è segnato dal male, dove è fatto prigioniero, dove la sua dignità è calpestata.

Il Padre non può sopportare che qualcuno dei suoi figli possa subire l’ingiustizia.

 

Chi accoglie e vive il Vangelo di Gesù, non può che ribellarsi e combattere ogni forma di ingiustizia perpetrata attorno a lui. Non sopporterà più sotto i suoi occhi fratelli feriti nella dignità, in quanto il Padre non può accettare di avere figli calpestati.

 

Ma cos’è la giustizia nel Vangelo? Non si tratta di quella distributiva, ovvero dare a ciascuno il suo, ma quella segnata dall’amore, ovvero: dare a ciascuno secondo il suo bisogno. E il bisogno profondo di ciascuno, è di essere liberato dal male derivante dall’aver commesso l’ingiustizia. Ecco cos’è il Vangelo, ecco il Dio all’opera nel mondo: amore che recupera, perdona e abbraccia soprattutto se si è segnati dal male, dal peccato, da una vita non giusta.

Ed è bello che Marco presenti all’inizio del Vangelo il prototipo dell’uomo giusto che vive in maniera evangelica, Giovanni il Battista.

Egli proclama – nel deserto – la necessità di convertirsi (v. 4). Ma cosa vuol dire concretamente? Letteralmente conversione vuol dire andare al di là del pensiero abituale, in sostanza cambiare pensiero su Dio.

Dio non è il giudice tremendo che si adira con l’uomo peccatore, ma Amore che ama da morire il figlio segnato dal male che ha commesso, condannando però il male commesso. Un amore da cui se ti lasci raggiungere ricevi il perdono, ossia il dono più grande, quello in grado di vincere anche il male che costringe a vivere di violenza, di egoismo e di morte. Questo è il perdono! Non condono per un’infrazione commessa, ma dono immenso per guarire dal bisogno irrinunciabile di fare il male.

Perché il male che compiamo è ‘ingiusto’, nel senso che non ci appartiene, siamo in qualche modo vittime del male che facciamo. Non siamo tanto noi che agiamo quando facciamo il male, piuttosto siamo ‘agitati’ dal male (cfr. Rm 7, 19).

Ebbene ci convertiremo nella misura in cui facendo esperienza della misericordia che abita ogni nostra miseria, cominceremo a vivere liberi dal fare il male. Impareremo cioè a relazionarci con gli altri fuori dalle logiche di violenza, di egoismo, di invidie e gelosie.

 

Giovanni il Battista viene presentato in un modo perlomeno un po’ strano. Quest’uomo veste di peli di cammello, con una cintura ai fianchi, mangia cavallette e miele selvatico.

Se Marco si ferma sul Battista con questa dovizia di particolari, vuol dire che sotto c’è qualcosa di importante.

Anzitutto veste di peli di cammello (v. 6). Il cammello è l’unico animale in grado di attraversare il deserto – luogo tipologico di morte – senza disorientarsi e morire. Cristo è colui che ha attraversato la morte, l’ha superata vivendo per sempre. Marco non fa altro che invitare ciascuno di noi a rivestirsi di Cristo, del suo vivere, del suo modo di pensare e di agire. Di rivestirci del Vangelo insomma, dell’amore di Dio per me, unico modo di attraversare il quotidiano segnato dalla morte, e la morte ultima, vivendo per sempre (cfr. Rm 13, 14).

Giovanni, ci informa ancora Marco, porta ai fianchi una cintura di pelle (v. 6b); nell’esodo il popolo ebraico era chiamato a cingersi l’abito con una cintura (Es 12, 11), per poter camminare liberamente, per non inciampare, per compiere più speditamente il cammino verso la Terra Promessa. Siamo uomini fatti per andare avanti, per entrare in una pienezza che ci sta sempre dinanzi. Occorre non inciampare in distrazioni inutili che rallentano o addirittura conducono da altre parti.

Quest’uomo si nutre di cavallette (v. 6b); un’antica leggenda semitica racconta che nel deserto viveva un tipo di cavalletta in grado di mangiare un serpente, simbolo di sempre del male.

Si nutre di miele selvatico (v. 6b). Il miele in tutta la Bibbia è simbolo della Parola di Dio.

Fuori di metafora: se nel deserto della nostra esistenza, dove tutto ha il sapore di morte, di sconfitta, di male cominciamo a nutrirci della Parola di Dio, ossia del ‘fare esperienza’ dell’Amore che vince anche la morte, allora impareremo a distruggere quel ‘serpente’ che ha voluto da sempre inocularci la tremenda idea menzognera su Dio come padre-padrone, vendicativo  e giudice tremendo e così incamminarci speditamente verso il suo abbraccio di misericordia e bontà, il luogo pensato per noi da sempre, nostra vera Terra Promessa.

E là, nutriti da questo amore, consapevoli che siamo figli amati, rivestiti insomma dei medesimi sentimenti di Cristo (Fil 2, 5), possiamo attraversare la morte stessa, in quanto finalmente in grado di amare.