«Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. 19Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. 20Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; 21ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”. 22Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: 23Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio:a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi. 24Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa» (Mt 1, 18-24)
Nel brano di Vangelo di oggi, Giuseppe è definito ‘uomo giusto’ (v. 19). Egli rifiuta di prendere con sé Maria e il bambino, non perché ritiene sua moglie un’adultera, ma proprio in quanto ‘giusto’.
Nell’ottica dell’Antico Testamento, l’uomo giusto (non si dà notizia di donne giuste!) è colui che riceve il dovuto per la sua giusta opera. Giuseppe qui è come se dicesse: questo bimbo non è opera del mio sangue. Io non posso ricevere questo dono immenso da parte di Dio, semplicemente perché non me lo sono meritato, non ho fatto nulla per poterlo ricevere in dono.
Ecco, il Vangelo capovolge questa mentalità tipica dell’uomo religioso di sempre: considerare il dono di Dio come premio, come qualcosa che vada meritato in virtù d’una prestazione. Invece occorre credere che possiamo essere oggetto dei doni di Dio, in ultima analisi della misericordia, al di là della nostra giustizia, al di là di ciò che pensiamo possiamo meritare, di ciò che abbiamo fatto e non fatto nella nostra vita. L’amore non potrà mai essere premio!
In fondo, anche noi cristiani, soffriamo della medesima malattia di Giuseppe, quella di considerare il rapporto con Dio in forza di una giustizia retributiva, immaginando di essere oggetto di bene in base al nostro comportamento morale.
Giuseppe è dunque l’uomo giusto chiamato ad essere sovra-giusto. E in fondo, la sovra-giustizia richiesta qui a Giuseppe coincide con la verginità di Maria: disponibilità a ricevere ciò che non dipende dalle proprie capacità fisiche, morali e tantomeno religiose. Maria non ha detto “non posso ricevere perché non me lo merito”, ma “proprio perché non ho in me nulla da far valere, nulla su cui poter contare, sono nella condizione di ricevere tutto”.
Il povero aprirà il suo desiderio all’infinito, l’orgoglioso si aprirà solo a quella possibilità di compimento che corrisponde a ciò che è in grado di compiere lui.
Il testo procede dicendo che Giuseppe pensò (v. 19), stava considerando (v. 20). Le sue elucubrazioni però sono includenti: «L’uomo comincia a vivere nella misura in cui smette di sognarsi» (Pablo d’Ors).
Il nome Giuseppe significa: Dio-aggiunge. È questo, in fondo, il nome segreto di ogni creatura: l’uomo, essere ‘finito’, è fatto per una continua aggiunta proveniente d’altrove, a patto che crei in sé lo spazio in cui l’Infinito possa accadere.
Nessuno basta a se stesso. Giuseppe è qui simbolo dell’uomo che, troppo grande da bastare a se stesso, finalmente s’abbandona all’opera di un Altro, diventando padre senza alcun merito e facendo della propria vita dono gratuito.