OMELIA 4a Domenica di Avvento. Anno C

39In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. 40Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. 41Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo 42ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! 43A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? 44Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. 45E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto». (Lc 1, 39-45)

 

Per comprendere il Vangelo di oggi, è necessario leggerlo in parallelo all’annuncio della nascita di Giovanni Battista, rivolto da Dio a Zaccaria e raccontato nei versetti precedenti (5-25).

Zaccaria è un sacerdote del tempio di Gerusalemme, il luogo preposto da sempre all’incontro con la divinità. Un uomo religioso, continuamente addentro le cose di Dio, uno che nel tempio si sentiva come a casa sua. Giusto, osservante irreprensibile di tutte le leggi e prescrizioni del Signore (v. 6). Un giorno Dio gli appare annunciandogli la straordinaria notizia che diverrà padre, lui uomo ormai anziano e sposo di Elisabetta, sterile.

Ma Zaccaria non crede.

Curioso: una vita spesa per la divinità, uomo profondamente religioso, sempre col nome di Dio sulle labbra, attento a non disobbedire a un comando, a un precetto, ora quando finalmente Dio gli parla facendosi presente, lui non crede, e dice che tutto questo non è possibile!

Quanto ci assomiglia questo uomo.

Rischiamo di vivere una vita addomesticando il nostro Dio, tenendolo buono con una vita anche irreprensibile, attenta ai dettami religiosi, alle pratiche comandate, al precetto domenicale, alle preghiere quotidiane, magari proclamando a gran voce “Ascoltaci Signore…”, ma l’essenziale è che lui non intervenga nella nostra vita se non per compiere i nostri desideri altalenanti e i nostri sogni deliranti. Quando è lui a chiedere a noi di ascoltarlo, allora non va più tanto bene.

Quanto è difficile passare dalla religione alla fede. Quanto è duro farsi spazio per il compiersi della sua azione in noi. Zaccaria non accetta l’opera di Dio in sé, non si apre alla sua azione; il risultato è una vita muta: «tu sarai muto e non potrai parlare fino al giorno in cui queste cose avverranno, perché non hai creduto alle mie parole» (v. 20).

Una vita diviene muta – ovvero non è più in grado di dire nulla – perché chiusa all’ascolto, all’accoglienza del divino in sé. È la fede a salvare la vita (Rm 3, 28). A definire il rapporto con Dio, non c’è un ‘ascoltaci Signore’, bensì l’‘Ascolta Israele’ (Dt 6, 4). Non è la nostra opera a favore della divinità a produrre qualcosa, non saranno le nostre preghiere a smuovere Dio piegandolo ai nostri desideri, ma è ‘ascoltare la sua voce’ dentro di noi a far sì che le sue promesse possano compiersi.

 

Nel Vangelo di oggi, Maria entra nella casa di Zaccaria, e saluta per prima Elisabetta. Un assurdo. Perché il saluto andava rivolto anzitutto all’uomo, al padrone di casa. Maria ha commesso un’infrazione alla legge, imperdonabile. Ma Maria è portatrice dello Spirito di Dio, l’amore, la vita, e questo è destinato ad Elisabetta, perché lo Spirito non si darà mai a chi è rimasto chiuso all’amore, allo Spirito. Zaccaria è rimasto refrattario alla vita, ora non può partecipare alla vita che danza, che scalpita, che gioisce.

Elisabetta invece accoglie, e il testo dice: «fu colmata di Spirito santo» (v. 41b). Elisabetta è battezzata. Ciò che non avvenne al sacerdote pio e zelante presso il tempio di Gerusalemme, ora avviene in una povera donna anziana e sterile. Elisabetta accoglie, e la vita dentro di sé, letteralmente, comincia a saltellare, a danzare di gioia (v. 44).

Ecco la differenza tra la tristezza di un osservante e la vita gioiosa di una povera donna perché apertasi all’opera di un Altro.

La medesima differenza (e tristezza) che troviamo in un altro pio osservante, quando dinanzi al suo dio, tronfio di sé, sciorinerà tutte le sue prestazioni religiose dicendo: «Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo» (Lc 18, 12), mentre colui che tornerà a casa graziato e ripieno della felicità di Dio, sarà un povero pubblicano peccatore, per il solo fatto di essersi reso ricettacolo di un Amore preveniente.

La medesima differenza che troviamo nella parabola del figliol prodigo, dove il figlio maggiore, rivestito di tristezza mortale, è tutto intento a lavorare per il suo dio-padrone: «io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando» (Lc 15, 29), mentre vede suo fratello sprofondare nell’abbraccio del Padre, rivestito come un principe, per il solo fatto di aver compreso che l’unico modo di sperimentare Dio Padre come l’amore, il perdono e la misericordia, è riconoscersi miseri e bisognosi di grazia.