«Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. 2Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? 3Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. 4E del luogo dove io vado, conoscete la via».
5Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». 6Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. 7Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto». 8Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». 9Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”? 10Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. 11Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse.
12In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre.
L’incipit del Vangelo di oggi suona così: «Non sia turbato il vostro cuore» (v. 1). Il verbo usato in greco, si potrebbe rendere anche con confuso, agitato, scosso.
Gesù sa che per i suoi, e quindi per ciascuno di noi, verrà il momento della prova, della sofferenza, della fatica del vivere e sa anche che la prima domanda che sorgerà nel cuore di chi prova tutto ciò, sarà: “Ma Dio dov’è?”. Questo invito di Gesù è per infonderci serenità, per dirci come vivere sereni in questa nostra storia travagliata.
Ma in che modo poter stare sereni in mezzo a tanto dolore e al male che da ogni parte ci stringe?
«Abbiate fede», continua Gesù. Un invito importante, da non intendersi come un romantico: “Abbiate fiducia!”. Gesù sta chiedendo ai suoi di comprendere bene cosa significa il suo andarsene, il suo lasciarli soli, affinché appunto, quando verrà la prova, non si dica ‘ci hai abbandonati, ci hai lasciati soli, illudendoci’.
L’andarsene di Gesù attraverso la sua morte-resurrezione-ascensione al cielo, è tutto a nostro vantaggio. Non ci avesse lasciati, non potremmo vivere di lui su questa terra.
È come se Gesù ci stesse dicendo: “Vado a rendervi possibile il vivere in altro modo la vostra vita presente”. Perché la questione non è avere un’altra vita a disposizione – desiderio di sempre dell’uomo – ma di poter vivere in modo altro l’unica a nostra disposizione, cioè con senso, con uno scopo: qui sta la nostra salvezza. “Io vado al Padre affinché voi possiate giocarvi la vita di tutti i giorni su questa terra in modo bello, fecondo e grande”.
Gesù, col suo andarsene, intende farci immergere ancora maggiormente in questo mondo. L’azione di Dio nel mondo non è quella di strapparci da questa ‘valle di lacrime’, ma di rimanere coi piedi ben piantati nella storia. In Gv 17, 15 pregherà il Padre con queste parole: “Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal maligno”.
Il nostro posto è qui e per quanto possa essere malato questo nostro mondo, ci giochiamo tutto da questa parte! E Gesù è venuto a far in modo che il mondo in cui siamo immersi, cessi di essere una “valle di lacrime”, ma possa divenire un luogo dove possiamo cominciare a perdonarci, ad amarci, ad essere preziosi gli uni per gli altri, rendendolo in questo modo sempre più un paradiso: questa è la nostra vocazione! A chi non vive cercando con tutto se stesso di rendere un paradiso questa terra, non è dato sperare di trovarne uno dopo la morte.
‘Avere fede’ vorrà dire acquisire occhi in grado di scorgerlo presente nel proprio quotidiano vivere, e comprendere perciò che egli non ci ha abbandonati in quanto è ‘il Dio con noi fino alla fine del mondo’ (cfr. Mt 28, 20).
Ma come possiamo percepire, concretamente, questa sua presenza? Attraverso l’amore: amando rendiamo presente Cristo, perché dove c’è carità e amore lì c’è Dio. Amando facciamo esperienza di Cristo «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me» (Mt 25, 40).
Dio è presente là dove ci si ama; ecco cos’è la sua presenza in mezzo a noi: l’amore.
C’è un importantissimo testo della Chiesa sub-apostolica, scritto circa nel 175 d.C. detta “Lettera a Diogneto”. È un testo importante perché vi si coglie tutta la freschezza della vita dei primi cristiani. L’autore spiega a Diogneto, un pagano, cosa vuol dire essere cristiani in questo mondo.
“I cristiani risiedono nella loro patria ma come stranieri domiciliati; adempiono a tutti i loro doveri di cittadini e ricoprono ogni incarico ma come stranieri. Ogni terra straniera è per loro patria e ogni patria è una terra straniera. Si sposano come tutti, hanno bambini ma non abbandonano i loro nascituri. Condividono la stessa tavola ma non il loro letto; sono nella carne ma non vivono secondo la carne;
passano la loro vita sulla terra, ma sono cittadini del cielo. Obbediscono alle leggi scritte ma il loro stile di vita supera le leggi. Amano tutti e da tutti sono perseguitati, li si dimentica, li si condanna, li si uccide e – attraverso ciò – guadagnano la vita per sempre. Sono poveri e arricchiscono tutti; mancano di tutto e sovrabbondano in tutto. Li si disprezza e in questo disprezzo trovano la loro gloria; sono calunniati e al tempo stesso si rende testimonianza alla loro giustizia. Sono insultati ed essi benedicono; sono oltraggiati ed essi rendono onori. Facendo il bene sono castigati come degli scellerati; castigati sono nella gioia come se rinascessero a nuova vita. Non disertano questa terra. E’ così nobile il posto che Dio ha loro assegnato che non è loro permesso disertarla”.
Duemila anni fa questo autore rispondeva già a Nietzsche il quale accusava i cristiani di disertare e tradire la terra in nome del cielo. Queste righe della lettera a Diogneto, mostrano come i cristiani sono coloro che – come tutti – vivono, si impegnano, sono immersi come lievito in questa terra, ma con uno stile di vita diverso. La domanda sarà perciò: da dove deriva loro questa modalità “altra” di vivere l’esistenza, questo “alto” modo di vivere? Da questa pagina del capitolo quattordicesimo di Giovanni si evince che con la dipartita, ritorno al Padre di Gesù, grazie alla quale ha effuso il suo Spirito, ossia l’amore stesso di Dio, egli ci abilita a vivere immersi nella storia in modo “altro”, ossia come vive Dio stesso: lavando i piedi ai fratelli e donando la vita a chi gliela toglie.
Poi l’autore continua:
“Il loro modo di vivere non ha origine terrena. Ciò che contestano e custodiscono con tanta cura non è l’invenzione di un mortale ma è l’Onnipotente stesso, il creatore di ogni cosa, l’Invisibile, Dio stesso che, inviandola dall’alto dei cieli ha posto negli uomini la verità.
Ecco che con queste premesse possiamo comprendere quell’espressione purtroppo molte volte fraintesa di Gesù: «Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore…vado a prepararvi un posto» (v. 2). Di solito questi versetti si interpretano come se Gesù ci stesse dicendo: “Tranquilli, vado a prepararvi un posticino in paradiso. Fra un po’ torno e vi porto tutti con me lassù”.
No! Questo non è Vangelo! Gesù non ci va a preparare un posto in paradiso ma ce lo ha preparato qui con la sua croce! La casa del Padre è Gesù stesso, perché Gesù è l’amore e Dio sta di casa dove si vive l’amore, e dove l’amore è riamato. Quindi è nell’amore che Gesù ci prepara un posto. Ogni volta che viviamo nell’amore siamo di casa in Dio. Chi vive nell’amore, vive già in Dio quaggiù.
Quindi, nessuna fretta di andare in paradiso, perché il paradiso è qui nella misura in cui ci giochiamo tutte le nostre relazioni nel dono reciproco, nell’amore fraterno e nel perdono del male arrecatoci vicendevolmente. E quando verrà per ciascuno la morte biologica, nessun problema: chi ha vissuto nell’amore (cioè nel Padre) continuerà a vivere nel Padre per l’eternità. Noi siamo di casa nell’amore!
Fortunatamente Gesù ci indica anche la via, grazie la quale possiamo risiedere nel cuore stesso di Dio in questa nostra storia. «Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (v. 6).
Gesù non ha detto: “Io sono la meta”, ma “Io sono la via”. Cosa vuol dire questo? Che se lui è la via, questa non è tanto da percorrere ma semplicemente da accogliere, è un dono che mi è stato elargito per grazia! Ecco la bella notizia. Questo significa anzitutto lasciarsi raggiungere dall’amore che entra in me in modo immeritato. Se accolgo l’amore, entro finalmente nella verità, ossia faccio verità su Dio (amore folle nei miei confronti), su me (figlio amato alla follia), sugli altri (non più nemici ma figli anch’essi del Padre e quindi fratelli da amare).
Il dramma di molto cristianesimo è di ingannarci sulla nostra vera identità: abbiamo scordato chi siamo.
A questo punto, Filippo chiede a Gesù: mostraci il Padre e ci basta (v. 8). La richiesta di Filippo è molto bella, perché rivela tutta l’inquietudine di sempre del cuore dell’uomo: vedere Dio, perché il nostro cuore è fatto per Lui e “troverà quiete soltanto quando contemplerà Dio” (Agostino).
Ma Gesù ha rivelato il Padre in tutto quello che ha fatto e detto. Con le sue opere e le sue parole. La rivelazione massima del Padre avverrà sulla croce: Dio Padre è l’amore che va fino alla fine per i nemici, per tutti noi.
Ma perché Filippo non ha dunque riconosciuto il Padre? Perché lui (come ciascuno di noi) ha una sua immagine di Dio e dell’amore, e quando Dio si rivela egli non è in grado di riconoscerlo perché ha già dentro di sé una sua immagine di ‘come dev’essere Dio‘!
A livello antropologico questo è importante: noi possiamo stare una vita con una persona, dicendo anche di amarla, ma rischiamo di proiettare su lei le nostre immagini, i nostri deliri, le nostre aspettative, non arrivando mai a comprendere veramente l’altro perché offuscato dai nostri pregiudizi. Allo stesso modo rischiamo di stare una vita con Gesù, facendo anche tante cose per lui, ma impedendogli di rivelarsi come lui vorrebbe, ossia nella sua piena oggettività, e quindi di farsi conoscere.
La domanda che Gesù fa a Filippo, la rivolge a me oggi: “Da tanto tempo sono con te e tu non mi hai conosciuto?” (v. 9).
La conoscenza di Dio non è data da ciò che io posso fare o presumere di fare per Dio, ma è permettere a lui di farsi conoscere, operando il bene per me! Questa si chiama rivelazione. E Dio si conosce solo per rivelazione.
Conoscere Dio è dargli la possibilità di manifestarsi a me per quello che è lui nella sua essenza: amore, perdono, misericordia. Perciò, fin quando non lo sperimenterò amore, perdono, e misericordia nella mia incapacità di amare, nel mio peccato e nella mia miseria, avrò di lui sempre una conoscenza intellettuale, di testa, fondata sulle idee, ovvero ideologica. Espresse tutto questo molto bene il profeta quando scrisse: «Tutti mi riconosceranno perché io li perdonerò» (Ger 31, 34), e ancora: «Riconoscerete che io sono il Signore quando aprirò le vostre tombe» (Ez 37, 13).
Ogni volta che vogliamo anticiparlo con le nostre opere, pensieri e prestazioni religiose, ci immergiamo nella non conoscenza di Dio, comportandoci come Pietro che disse durante l’ultima cena: «Tu non mi laverai mai i piedi!» (Gv 13, 8a), ovvero da che mondo è mondo non si è mai dato un Dio che mostri il suo amore per la creatura in questo modo folle, è piuttosto l’uomo a dover amare Dio, ricevendo da Gesù quella risposta che vale l’intero Vangelo: «Se non ti laverò, non avrai parte con me» (v. 8b).