«Venne da lui un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi purificarmi!”. 41Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, sii purificato!”. 42E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. 43E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito 44e gli disse: “Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro”. 45Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte». (Mc 1, 40-45)
La lebbra era, all’epoca di Gesù, il gradino più basso della condizione dei senza-dignità in Israele. Una minaccia per i cosiddetti ‘sani’. Gli stranieri per eccellenza; gli estranei, coloro che dovevano vivere ‘fuori’ dai confini, in luoghi isolati. Condannati a vivere fuori dai centri abitati, i lebbrosi erano semplicemente morti viventi. Erano esclusi dalla famiglia, dal contesto sociale, e soprattutto da quello religioso. Erano considerati dei castigati da Dio: la lebbra era l’impietosa visibilizzazione dei peccati commessi (Nm 12, 9-10; 2Sam 3, 2). Per questo il lebbroso era un maledetto da Dio, in quanto castigato per i propri peccati (Dt 28, 25-27).
Le lebbra sfigura il volto, e dato che il volto è epifania della persona, questo uomo non ha più neanche un nome. Infatti l’unica cosa che il lebbroso può pronunciare quando si trova in prossimità di qualcuno non è ‘Io sono’, ma ‘Io sono immondo’. A definirlo è la sua condizione! La Scrittura dice inoltre che il lebbroso “è come uno a cui suo padre ha sputato in faccia” (Nm 12, 14), è come “un bambino nato morto” (Nm 12, 12), e che neanche dopo la morte sarà simile agli altri, perché semplicemente non è.
Il testo dice che questo lebbroso si avvicina a Gesù (v. 40). Quest’uomo è un trasgressore della legge; infatti in quanto impuro e maledetto da Dio la legge impedisce di avvicinarsi ad alcuno. La legge ti dirà cosa sei, e cosa non puoi fare. Ma ciò che definisce, ordina e impedisce, non è sufficiente al nostro cuore. Ciò che lo compie sarà solo e sempre un desiderio di comunione.
Il lebbroso di questo brano, riassume tutte quelle forme che ci appartengono e che presumiamo essere improprie per avvicinarci a Dio.
La lebbra è il nostro limite, sono gli spazi d’ombra in grado di separarci da noi stessi, sono quegli aspetti di noi che non accettiamo e che ci separano dagli altri. Sono un lebbroso quando mi trovo a pensare dentro di me: non merito di essere avvicinato da nessuno, sono un fallito, non sono buono a nulla; tanto non ce la farò mai a cambiare; come può Dio amare uno come me… Ebbene tutto questo, tutto ciò che di noi sembra allontanarci da noi stessi, dagli altri e da Dio, diventa luogo, possibilità d’incontro con Gesù che guarisce. Non c’è una zona d’ombra, un aspetto che è in grado di allontanarci da Dio. Anzi, il nostro male e il nostro bisogno di guarigione diventa il nostro diritto ad avvicinarci a lui.
Questo uomo sa che l’unica cosa che gli permette di avvicinarsi, di farsi accogliere da Gesù è la sua lebbra, cioè la sua verità. La prima comunione che avviene è proprio con se stesso: accettazione della propria condizione.
Si va da Gesù con due cose: la verità di ciò che siamo, e il desiderio di vita in pienezza: «Se vuoi puoi mondarmi» (v. 40); è un desiderio impossibile, in quanto quest’uomo sa che solo Dio può guarire dalla lebbra.
Occorre manifestare a Dio i nostri desideri più profondi, quelli che ci sembrano impossibili, perché Dio desidera solo che noi desideriamo, affinché possa compiere la nostra verità più profonda.
Dinanzi al nostro limite più grande, Dio prova compassione (v. 41); sente il male dell’altro come suo male, questa è compassione. Non è l’onnipotenza di Dio a salvarci ma la sua com-passione. Sentire lo stesso male che sentiamo noi.
Compatisce – tocca prendendo su di sé – purifica (v. 41).
Quelle zone, quel male, quel limite che neanche io ho imparato ad accettare, che fatico a chiamare per nome e di cui mi vergogno, ebbene a Gesù non interessa, ai suoi occhi non appare un limite limitante; per questo lo inabita, lo patisce-con-me.
Per questo occorre far emergere tutto ciò che di negativo ci portiamo dentro, toglierci le maschere che coprono i nostri volti e quindi le nostre storie deturpate dal male e porle dinanzi al suo volto di compassione e alla sua mano che tocca e risana.
«Lo voglio» (v. 41b). Bellissimo. Il Dio di Gesù vuole solo figli guariti, a differenza del dio della Legge che vuole solo i figli migliori.
Questo è l’unico volere di Dio su di me! Che io torni a vivere. Che io lasci i miei luoghi deserti e infernali dove mi sono nascosto per paura, per tornare a vivere al centro della mia storia, riconciliato con me stesso e con gli altri.
«Io voglio solo che tu viva», dice Dio, ad ogni uomo offeso e sfigurato dal male perpetrato e ricevuto.
Questo uomo che stava morendo per una solitudine immensa, per mancanza di mani che gli accarezzassero il volto, ora viene toccato dalla carezza stessa di Dio, Gesù. «Ogni vita muore se non è toccata, muore di silenzi. Il cuore può morire per assenza d’incontri» (Ermes Ronchi).
Colpisce ciò che Gesù fa subito dopo aver purificato il lebbroso: «ammonendolo severamente lo cacciò via subito» (v. 43). L’amore non crea dipendenza, il bene non cattura, ma pone solo in libertà.
Vai! Vai a vivere in pienezza la vita da uomo autonomo, guarito e bello.
E ora questo uomo salvato e reintegrato con se stesso e con l’umanità intera, viene da me, invitandomi a credere che questa cosa impossibile, “guarire dalla lebbra” ossia dai miei limiti interiori, dalle mie fragilità, risuscitare dai miei sepolcri interiori è possibile! Perché anch’io possa finalmente gridare: «Sì Gesù, io so che se vuoi puoi guarirmi», e perché lui possa dirmi: «sì mio amato, lo voglio».
E insieme, diventare dispensatori di carezze in grado di far risuscitare gli uomini.