«E [Gesù] disse loro: “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. 16Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato. 17Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, 18prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno”. 19Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio. 20Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano».(Mc 16, 15-20)
I Greci credevano che l’eroe solare Eracle fosse stato rapito in cielo; Roma che Romolo vi fosse salito da sé. Le antiche civiltà insegnavano coi loro miti, che mediante azioni eroiche gli esseri umani fossero in grado di innalzarsi alla grandezza degli dei.
Gesù è l’anti-eroe che è venuto a scongiurarci di smettere di voler scalare il mondo di Dio con sforzi titanici, e al contempo di invitarci a considerare la nostra vita a misura umana.
È nella piccolezza della nostra esistenza terrena che vive un pezzo di eternità divina. Dopo la bella notizia del Vangelo, ciascuno di noi ha il diritto e la possibilità di attribuire a se stesso e agli occhi di Dio, un valore infinito e di pensarsi con sufficiente fiducia: è semplicemente in quanto figli che meritiamo la grazia, l’amore e l’accettazione del Padre. Non abbiamo più bisogno di farci Dio per vivere in maniera degna.
Il problema è che a tutto ciò non crediamo fino in fondo. Ogni volta l’angoscia s’affaccia nella nostra vita, ed è come dovessimo spingerci ‘più in alto’. È come avessimo un innato bisogno di ‘volare alto’, di diventare ‘grandi’, per bilanciare i nostri sensi di inferiorità. Ma Gesù è lì a ripeterci: «chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita?» (Mt 6, 27), che letteralmente andrebbe reso così: «Chi tra voi, preoccupandosi, può aggiungere alla propria statura mezzo metro?».
Tutta la preoccupazione, il darsi da fare, l’affannarsi per crescere un po’, per rendersi un po’ più grandi e importanti, a cosa serve? Dove porta? Più hai paura di precipitare nel tuo abisso più innescherai strategie di grandezza.
Gesù è venuto a tirarci giù, a farci tornare coi piedi sulla terra, sussurrandoci che siamo già grandi abbastanza, valiamo già molto e andiamo benissimo così.
L’ascensione al cielo è quella di Gesù, ed è lì a ricordarci che grazie a lui possiamo cessare di dare l’assalto al cielo per acquisire valore e dignità come persone umane. Perché questo valore, questa dignità noi l’abbiamo già in quanto figli amati.
In Gesù viveva questa fiducia benevola che noi possiamo sentirci in cielo su questa terra. Che la felicità è già alla nostra portata, in quanto dentro di noi, e che perciò non deve più essere conquistata ma solo riscoperta e fatta maturare.
Che non dobbiamo più adattarci alle circostanze per prevenire l’infelicità e per evitare il disonore.
Che non siamo più soggetti alle cose e alle persone per assaporare un po’ di dignità e di diritto all’esistenza.
Gesù ci ricorda che una vita in balìa dell’ambiente, il dovere di adeguarvisi e di corrispondere alle attese di tutti, si chiama possessione demoniaca, concetto che per la moderna psicanalisi prende il nome di angoscia: «distruzione progressiva dell’io nel folle sforzo di poter raggiungere in questo modo la propria felicità; un defatigante girare in tondo senza concludere nulla, senza direzione, senza stabilità» (Eugen Drewermann).
L’ascensione è certezza di una verità che ci ha raggiunti per grazia: sapere a chi apparteniamo, dov’è la nostra dimora, da cosa dipende veramente la nostra vita. Cos’è quel centro in grado di darci stabilità.
Io sono in Dio, abito lì ed è solo lì la mia vita, la mia sicurezza. Se credo a questo, non avrò più necessità d’essere angosciato nel trovare casa ‘altrove’, con la serena certezza che le situazioni non avranno più potere su di me.
L’ascensione ci aiuta a vedere la nostra vita ‘dal punto di vista di Dio’. Se ‘riposerò’ in questa verità, in quest’ottica divina allora:
«scaccerò i demòni» (cfr. v. 17): ossia cesserò di vivere da schizofrenico, sempre in procinto di recitare ruoli a seconda dall’autore che vorrò accontentare; di vagabondare, senza mai riposare in un centro unificante all’interno di me; di obbedire ai vari poteri che con le loro leggi e norme continuano a imporsi sulla mia vita: che siano economici, mondani, ecclesiali…
«parlerò lingue nuove» (cfr. v. 17). Cesserò di recitare, sotto il dominio dell’angoscia, un monologo esistenziale, senza permettere mai all’altro d’intervenire e di spezzare la mia parola. Imparerò a parlare una lingua nuova dal momento che apprenderò la lingua dell’altro che in quanto altro sarà sempre lingua straniera.
«prenderò in mano i serpenti» (cfr. v. 18). L’arte di vivere, per gli uomini si risolve spesso nel rimuovere o nascondere cose sgradevoli della propria vita, i propri ‘serpenti immondi’. Ma ciò che è lasciato lì non è eliminato, è solo rimosso. E il rimosso col tempo è destinato a crescere.
Deve esserci un momento in cui si prendono in mano i propri serpenti, le zone più buie di noi. Non verremo a capo del male se non grazie alla consapevolezza di ciò che ci abita e la coscienza di un’intima invulnerabilità. Non bastano i buoni propositi e gli sforzi. La nostra invincibile povertà reclamerà l’intervento di un Altro, ossia: «colui che in tutto ha potere di fare molto più di quanto possiamo domandare o pensare, secondo la potenza che opera in noi» (Ef 3, 20).
«berrò veleni mortali» (cfr. v. 18). La storia ci ricorda quanti ‘veleni’ abbiamo tenuto – e continuiamo a tenere – a distanza, per paura che ci avvelenino la vita… Persone con un pensiero ‘altro’ dal mio, uomini di altre fedi, sapienze di altre religioni, autori messi ‘all’indice’, cibi ritenuti impuri, profughi allontanati…
Viviamo nella paura che l’impuro ci contamini, che il profano tocchi il sacro, che il prossimo lontano ci tolga la felicità. Ebbene, con Gesù è saltata per sempre la differenza tra sacro e profano, tra puro e impuro, tra autoctono e straniero, tra santo e peccatore. Non c’è più veleno che ci possa nuocere, perché l’amore ingloba il male e trasforma in bene, in quanto «tutto concorre al bene di coloro che amano Dio» (cfr. Rm 8, 28).
Si mesce acqua e si bene vino, come alle nozze di Cana. Si è ladroni sulla croce, e dopo un attimo ci si ritrova in paradiso.
«Imporrò le mani ai malati e questi guariranno» (cfr. v. 18). Scoprirò in sostanza che avrò mani in grado di compiere miracoli, perché il miracolo più grande starà nel ridare dignità a chi l’ha perduta, a tutti coloro che non si son mai sentiti accettati nella loro interezza. Guarirò l’altro quando questi si sentirà amato non per quello che fa, o per ciò che possiede, non per i suoi orientamenti sessuali o per il suo credo religioso, ma semplicemente perché si sente accettato nella sua interezza, in ciò che sta soffrendo e per ciò che lo rende felice.
Liberare l’altro dalle proprie angosce del vivere, è insomma la missione di Cristo e del cristiano.
Lui asceso al cielo ci ha reso possibile di vivere una missione così alta; noi vivendo questo ci sentiremo finalmente ‘in cielo’ nel bel mezzo della nostra realtà terrena.