«In quel tempo, Gesù prese a parlare loro del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure.12Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: “Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta”. 13Gesù disse loro: “Voi stessi date loro da mangiare”. Ma essi risposero: “Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente”. 14C’erano infatti circa cinquemila uomini. Egli disse ai suoi discepoli: “Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa”. 15Fecero così e li fecero sedere tutti quanti. 16Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. 17Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste». (Lc 9, 11b-17)
«Il Corpo del Signore non lo dobbiamo pensare negli schemi sacrali. Ricordate le processioni con gli ostensori e gli incensi? Di quel pane che deve essere un pane a tavola noi abbiamo fatto un idolo. È l’astuzia dell’uomo! Quando l’uomo fa di un santo una realtà da adorare, se ne è già liberato. Adorare significa metterla fuori. Messa fuori, viviamo più tranquilli nella nostra malvagità» (E. Balducci).
L’umanità è un immenso corpo che in mezzo al deserto esistenziale, sente il bisogno di essere preso in carico e guarito. Ciascuno di noi ha bisogno di essere curato nelle proprie ferite più profonde. Ciascuno di noi soffre fame di senso, di sapere se la propria vita merita di essere vissuta o meno, se è possibile ricominciare daccapo dopo ogni sconfitta, se c’è uno sguardo per cui si possa essere preziosi, e un abbraccio che possa stringerci senza merito alcuno.
Gesù, in questa terra desolata, vede e si prende cura proprio di questa umanità addolorata invitando ciascuno a fare altrettanto, sfamare questa umanità in attesa, rivelando così quella logica inaudita che la propria fame si estingue solo facendosi pane per gli altri. Gesù invita non tanto a dare cose, denari o altro per compiere la sazietà dell’altro, piuttosto sé stessi: «Voi stessi date loro da mangiare», ossia ‘datevi in cibo a questa umanità affamata’ (v. 13a).
È interessante notare come nel momento in cui si entra in questa logica del dono di sé, il deserto comincia a fiorire (cfr. Is 32, 15). Nel Vangelo di Giovanni, nel passo parallelo, si dice che in quel luogo ci fosse “molta erba” (Gv 6, 10b) e Marco aggiunge come quell’erba fosse ‘verde’ (Mc 6, 39). Un luogo con molta erba verde, richiama ovviamente un giardino, e il giardino nella Bibbia è sinonimo di paradiso. Insomma: il condividere, il prendersi cura della vita dell’altro fa fiorire ogni deserto esistenziale e trasforma lentamente questo nostro mondo incolto, in un anticipo di paradiso.
La festa del Corpo e Sangue di Gesù, cosa può dire a noi oggi? Credo che funga anzitutto da memoria del mistero dell’incarnazione, o se vogliamo, di come Cristo si incarni oggi in questa nostra storia: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 40). Prima di farsi ostia, Dio s’è fatto carne, e ogni carne. Maltrattare un essere umano è profanare il medesimo Corpo di Cristo.
Va da sé che i veri e più preziosi tabernacoli sono i corpi martoriati dei poveri, le carni consunte di migliaia di profughi, degli esclusi, degli allontanati e degli abbandonati.
Adorare e venerare l’ostia consacrata e poi calpestarla, denigrarla e rigettarla nel fratello può essere cristianesimo?
C’è forse più Dio in un’ostia consacrata che in un povero cristo dimenticato nel mare della storia?