In questa domenica detta ‘domenica delle palme’, come si sa, si fa memoria dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme nel suo ultimo viaggio nella città santa. Alla notizia del suo arrivo, i presenti, entusiasti, stendono mantelli sul terreno sventolando e agitando i rami tagliati degli alberi, palme appunto.
L’immagine è icastica: Gesù entra trionfante a Gerusalemme, seduto sul dorso d’un asinello.
Per lui ha inizio l’ultima settimana di vita. Infatti a Gerusalemme vi rimarrà cinque giorni. Al ‘sesto giorno’ lo uccideranno. Al settimo entrerà nel buio del sepolcro, per risorgere l’ottavo giorno.
Questa cadenza temporale altro non è che la narrazione di una ‘nuova creazione’.
Si è passati dalla ‘creazione dell’uomo’ – avvenuta secondo il libro della Genesi il sesto giorno – alla sua ri-creazione compiutasi con la morte e resurrezione di Gesù, il nuovo Adamo.
Ora la domanda che s’impone è questa: in che senso, in che modo, la morte e resurrezione di Gesù ha permesso questa ricreazione dell’umanità intera?
La narrazione classica – e ufficiale – della Chiesa ci è nota: la morte di Gesù sulla croce – come Agnello di Dio, e dunque vittima sacrificale – ci ha riconciliato con Dio una volta per tutte. Questa ‘verità’ teologica ci ha plasmato fin dal catechismo, con affermazioni come queste:
_ “Tu ci hai redenti (ri-uniti con Dio, riacquistati, ricondotti alla sua amicizia…) con la tua morte e risurrezione”. (Dalla liturgia eucaristica)
_ “Dalle sue piaghe (dal suo sacrificio) siamo stati guariti” (1Pt 2, 25)
_ “Ecco l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo…” (Dalla liturgia eucaristica)
E si potrebbe continuare per pagine e pagine…
L’idea che è passata nel cristianesimo, cattolico, protestante o ortodosso che sia, è che l’evento-croce di Gesù sia di per sé salvifico. Che è la presunta morte-sacrificale di Gesù ad averci riconciliato con suo padre, un dio adirato con noi; e che quest’ira possa essere placata solo col sangue nientemeno del suo unico e amato ‘figlio’ (nella tradizione ebraica questa presunta riconciliazione avveniva almeno con la morte di capi di bestiame -un capro (espiatorio) e un agnello).
Personalmente è da tempo che ho abbandonato questo modello teologico per leggere l’evento-croce di Gesù di Nazareth.
Non posso più starci dentro, da uomo di fede e per onestà intellettuale.
La croce non è per me il progetto concepito da un dio sadico che sacrifica ciò che ha di più caro – suo figlio – per ristabilire l’amicizia con la massa dannata degli uomini e delle donne colpevoli solo d’essere gli ‘esuli figli di Eva’. La croce non può essere l’altare dove si consuma – ad opera di un sedicente dio-amore – il male più assordante della storia seppur a fin di bene! Quel medesimo dio che stando alla rivelazione biblica fermò il coltello nella mano di Abramo pronta a sacrificargli il figlio Isacco.
Ma a questo punto la domanda si fa ancora più cogente. Cos’è dunque la croce; che cosa significa la morte di Gesù sulla croce? Anzitutto credo profondamente che la croce sia la destinazione (non il destino) dell’avventura amante dell’uomo Gesù. Non è la realizzazione di un progetto sadico ma l’ultima stazione dell’amore. La croce non è stata cercata, voluta, conseguita, agognata, ma la conseguenza storica, contingente, naturale del cammino intrapreso ‘in direzione ostinata e contraria’ dell’uomo di Nazareth. Gesù ha deciso di amare senza se e senza ma, e questo l’ha portato sul patibolo infame ad opera del potere -esclusivamente – civile e temporale del suo tempo.
Credo che occorra passare dunque dalla logica redentivo-sacrificale alla logica dell’asino.
L’entrata sul dorso di un asino, a livello simbolico è infatti potentissima. Gesù vince la morte in quanto ‘asino’, ovvero attraverso una vita all’insegna delle virtù innegabili di questo incredibile animale che diventano metafora: la mansuetudine, il servizio disinteressato, la condivisione dei pesi altrui (cfr. Gal 6, 2) e una spiccata capacità di ascolto (le sue orecchie molto grandi). Gesù ha rifiutato di servirsi di un cavallo, l’animale di chi detiene il potere facendo uso della forza e della violenza.
Laddove vi è capacità di servire, si realizzerà il Regno di Dio: «Benedetto il Regno che viene», dice Marco 11, 9. Insomma, è la capacità di servire, di fare il bene che ci salva, porta compimento la nostra umanità, che ci fa fiorire!
Per questo occorre ‘slegare’ dentro di noi l’asinello (Mc 11, 2), ossia la nostra capacità di amare e di servire. Gesù è venuto proprio a tentare di sciogliere, slegare in noi questa capacità di prenderci cura dell’altro, di giocarci la vita in una modalità non mondana.
“Il Signore ne ha bisogno” di questo asino (v. 3). Egli ha bisogno del mio bene, ossia che si sciolga in me l’egoismo che mi blocca la vita, per effondere luce nel mondo facendo arretrare la tenebra del male. E stiamone certi: questo asinello il Signore ce lo rimanderà indietro subito (v. 3): l’amore che doniamo agli altri ci tornerà sempre indietro e in maniera sovrabbondante.
Il problema di fondo, è che noi amiamo il potere e la forza. Per questo preferiamo salire sul cavallo del vincitore di turno. All’asino mansueto, che si pone a servizio, preferiamo la violenza dei potenti, per ingrossare il nostro ego.
Siamo chiamati a realizzarci attraverso la via del bene e del dono, ma continuiamo a strizzare l’occhio al mondo, con la sua logica apparentemente vittoriosa, fondata sul potere, l’avere e il successo. Ma se incrociamo l’asino col cavallo rischiamo di stare al mondo come il mulo, semplicemente sterile.
Gesù entrò nella sua settimana di ‘compimento’ avendo come trono un asino, e la terminò su di un altro trono, la croce: segno, solo, dell’amore che va fino alla fine. E ora molta gente urla: “Osanna” che significa “Dio salva”. Sì, Dio salva così, con l’amore che non demorde, rinnegando il proprio io a favore dell’altro. E grida ancora: «Benedetto colui che viene…». Sì, perché l’Amore non può venire che in questa maniera, perché venisse in altro modo, con potenza e violenza, rinnegherebbe semplicemente sé stesso.