OMELIA Festa della Presentazione del Signore. Anno A

Lc 2, 22-40
«Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore» (Lc 2, 22s.).
Ad accogliere Gesù il vecchio Simeone – rappresentante dell’antico Israele – con le parole: «Egli è qui per la caduta, la resurrezione, … segno di contraddizione» (v. 34).
Il termine ‘caduta’ ha significato di crollo, distruzione, rovina. Questo bambino è qui, e ovunque, ora e sempre perché l’essere umano sperimenti finalmente il crollo e la rovina, la distruzione e la rinascita.
In India, Shiva (शिव) è conosciuto come il dio della distruzione ma sempre in vista di una ricreazione. Simbolo del ciclo continuo di morte e rinascita nel quale tutto l’esistente è immerso.
Nascita e morte, distruzione e ricreazione, morte e risurrezione altro non sono che momenti di quella danza che chiamiamo vita.
Nella Bibbia numerosi sono i passi in cui Dio si presenta come forza distruttrice, ad esempio:
“Io formo la luce e creo le tenebre,
faccio il bene e provoco la sciagura;
io, il Signore, compio tutto questo” (Is 45, 7).
Abbiamo bisogno di entrare in contatto col quel ‘dio della distruzione’, che ci abita, principio in grado di frantumare ciò che è bene che muoia per far spazio a quel qualcosa di nuovo e fecondo che è già lì pronto a sbocciare.
In Occidente C.G. Jung ha identificato tutto questo con l’archetipo del Distruttore. Quell’energia al centro di noi stessi che se contattata ci permette di distruggere ciò che in noi non tiene più, e non ha più motivo di esistere; le situazioni, le relazioni che si trascinano avanti magari da anni ma ormai morte e che non abbiamo il coraggio di ammetterlo; quelle abitudini mentali che non ci fanno crescere provocandoci solo profonda tristezza…
Sì, che il dio della distruzione trovi libero spazio in noi perché qualcosa di nuovo e fecondo possa cominciare a fiorire.
«Sfasciami il cuore, o Dio in tre persone;
perché tu finora solo bussi, aliti, risplendi e cerchi di guarire;
perché mi alzi e stia in piedi, buttami giù
e piega la tua forza per spezzarmi,
dissolvermi, bruciarmi e farmi nuovo.
Io, come città usurpata, schiava di un altro,
mi sforzo per farti entrare, ma, ahimè, senza riuscirci.
La ragione, in me tuo viceré, difendermi dovrebbe,
ma è prigioniera, e si rivela debole o infida.
E tuttavia teneramente t’amo,
e amato vorrei essere, ma fidanzato sono al tuo nemico:
divorziami, sciogli, o spezza quel nodo ancora,
legami a te, imprigionami,
perché io se non mi rendi schiavo, mai libero sarò,
e casto mai, se tu non mi violenti». (John Donne 1572-1631)