Mc 13, 33-37
«È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi» (v. 34).
Siamo venuti al mondo investiti da una sorta di potere, la divinità stessa.
Siamo divini.
Ora Gesù invita a stare attenti, a vigilare su questa nostra realtà, a non dimenticare la nostra matrice, illudendoci magari d’essere cosa altra dall’Uno, e da Lui separati.
«La gente lo cerca lontano, che peccato! Sono come coloro che, immersi nell’acqua, chiedono disperatamente da bere» (Hakuin Hekaku).
Non si può disgiungere il danzatore dalla danza, la linea tracciata col gesso dal gesso, l’onda dal mare.
«In lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At, 17, 28).
Da qui una vita trasformata.
Con questa consapevolezza s’imparerà a ‘vegliare’, tenendo gli occhi aperti come le civette che vedono chiaramente anche di notte, anche ciò che gli altri non vedono. Significherà scorgere la Presenza laddove tutto pare avvolto dal buio, un significato dove è non senso, il bene dove vi è inimicizia e odio.
A questo punto il divino non sarà più l’oggetto esterno a noi da invocare, cui ricorrere nel bisogno, impetrandolo perché intervenga, ma il più profondo di noi stessi, che ci costituisce, di cui siamo parte e manifestazione.
Ci muoviamo già nell’oceano infinito, partecipandone.
Occorre solo mollare la presa, non avere più attaccamenti per poterne godere appieno, consapevoli che alla fine ‘vince chi molla’.
‘Tu sei il cielo. Tutto il resto è solo tempo atmosferico’
(Pema Chödrön)