Lc 15, 1-3. 11-32
L’Amore ama le storture, le storie sbagliate, gli uomini usciti di strada, gli imbrattati nel brago dei porci.
L’Amore ama far festa per coloro che si son sempre ritenuti inadeguati, fuori luogo, persi.
La gioia del Dio di Gesù di Nazareth, non dipende dal comportamento dei figli, ma che questi sperimentino qual è il comportamento del Padre nei loro confronti: «questa è la vita eterna [ossia la felicità piena] che conoscano te», ricorda Gesù rivolgendosi a suo Padre (Gv 17, 3).
Abbiamo identificato la santità con un ‘migliorismo’ morale, con il farcela a tutti i costi. Abbiamo creduto che lo scopo del cristianesimo fosse far felice Dio col proprio comportamento etico. Abbiamo ridotto la confessione ad un’accusa del dislivello tra ‘ciò che avrei dovuto essere e ciò che mi ritrovo a vivere’, quando il vangelo ricorda che la salvezza altro non è che perdersi nell’abbraccio di un Amore che versa su me il balsamo che guarisce le ferite del mio vagabondare aprendomi così ad un futuro di fecondità. Solo questo abbraccio produrrà vita, gioia, trasformazione interiore, mentre l’accusa continua (e frustrante) del dislivello tra il dovere e la realtà delle nostre miserie, genererà solo sensi di colpa e tristezza mortale.
Dio non nutre aspettative su di noi, perché l’amore non s’aspetta nulla dall’amato, come un buon genitore non dovrebbe attendersi nulla dai figli: «Il vero amore per i figli dev’essere a favore dei figli, svincolato da qualsiasi aspettativa nei loro confronti. Questa è una debolezza dei genitori: la si potrebbe definire il loro destino» (Etti Hillesum, Diario).
«Questo tuo fratello era morto» (v. 32) dice il Padre al fratello maggiore. Ma ora è tornato a vivere – è risorto – perché ha accettato di perdersi nell’abbraccio amoroso.
Non avendo mai veduto cadaveri tornati in vita, per me credere alla risurrezione significa credere alla potenza del perdono donato a chi ha sbagliato nei miei confronti.
Perdonare non significa né amnistia né amnesia, ma dono perché l’altro possa tornare a vivere, aprendolo così a un futuro che ha il sapore di rinascita.
Perdonare per me significa concedere all’altro il miracolo di ricominciare, di rialzarsi dalle proprie ceneri, per poi sperimentare che il primo a volare sono proprio io.