«I suoi genitori si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua. 42Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa. 43Ma, trascorsi i giorni, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. 44Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; 45non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme. 46Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. 47E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. 48Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». 49Ed egli rispose loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». 50Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro.51Scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore. 52E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini». (Lc 2, 41-52)
Oggi è la domenica detta della ‘Sacra famiglia’.
Sfogliando il vangelo però troviamo passi in cui Gesù pare far di tutto per frantumare l’idea canonica di famiglia che ci portiamo dentro e che una certa ideologia cattolica ha trasformato in ‘famigliarismo’.
Dobbiamo essere onesti. Gesù è venuto a rompere con certi legami famigliari, così stretti da essere coercitivi e certe dipendenze così totalizzanti da risultare mortali.
Gesù si è dovuto anzitutto liberare lui stesso da pastoie famigliari che rischiavano di diventare totalizzanti. Marco, all’inizio del suo scritto, ci ricorda che mentre Gesù sta parlando gli vengono a riferire che ‘là fuori’ si trovano sua madre e i suoi fratelli che sono venuti a prenderlo, tra l’altro credendolo fuori di testa per le cose che andava dicendo, ossia contraddicendo molto della Legge antica ritenuta incontestabile. E questo uomo di una libertà interiore senza eguali, dice loro: lasciatemi qua, devo fare la mia strada, devo portare a compimento ciò che io sono e non quello che voi immaginate e che reputate essere bene per me.
Gesù non perde l’occasione di ricordarci che la famiglia di sangue non è l’ultima parola sulla vita di una persona.
«È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla» (Gv 6, 63).
E in fondo aveva ragione anche il poeta: «Non è la carne e il sangue, ma il cuore a renderci padri e figli» (Friedrich Schiller).
Si dà ‘famiglia’ laddove ci si ama.
«Mia madre e i miei fratelli son quelli che ascoltano e mettono in pratica la mia parola», ossia vivono la modalità dell’amore, ripete Gesù. Perché solo l’amore è fecondo, in quanto la sola forza in grado di produrre vita. E fecondità non coincide con generatività, mettere necessariamente al mondo figli. Fecondità significa vivere in modo da venire alla luce di sé stessi. Sbocciare come donne e come uomini completi. E l’unico modo, l’unica strada per fare questo è l’amore.
Gesù non torna “a casa” coi suoi. Ognuno deve trovare il proprio luogo esistenziale, non indicato e preparato da altri, e poi abitarlo con ostinazione. Ma prima occorre rompere, lasciare tane e nidi, zone di confort caldi come uteri materni, e lasciar morire i propri ‘padri’ ossia sganciarsi da legami troppo direttivi di personalità forti cui abbiamo concesso uno smisurato potere su di noi (cfr. Lc 9, 57-61).
Gesù deve occuparsi delle “cose del Padre suo” (cfr. v. 49b). La via obbligata per portare a compimento la propria vita è anzitutto quella che si prende cura del Padre che ci abita, ossia quella «Presenza vivente, immanente nel creato e nelle creature che guida verso il compimento del loro specifico e personale destino» (G. Vannucci).