«Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. 17Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. 18Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio». (Gv 3, 16-18)
“Con il tuo unico Figlio e con lo Spirito Santo
sei un solo Dio, un solo Signore,
non nell’unità di una sola persona,
ma nella Trinità di una sola sostanza.
Nel proclamare te Dio vero ed eterno,
noi adoriamo la Trinità delle Persone,
l’unità della natura, l’uguaglianza nella maestà divina”.
Questo è quanto si leggerà domenica prossima nel prefazio della celebrazione eucaristica. Un gioco di parole pressoché incomprensibile, maldestro tentativo di esprimere l’inesprimibile, argomento ad appannaggio degli specialisti, tanto che chiunque altro ne osa parlare, s’imbatte facilmente in errore.
Sento, personalmente, di tornare ad ancorarmi sempre più nella mistica, quella modalità di accostarsi a Dio con una mano sulla bocca, consapevole che «Si conosce meglio Dio non conoscendolo (Agostino) e che «La suprema conoscenza di Dio è conoscere Dio come sconosciuto» (Tommaso). Quando ci rassegniamo a non-conoscerlo, siamo da lui finalmente conosciuti.
Nella prima lettura si ha Mosè che si reca sul monte all’incontro con Dio, avvolto in una nube e Nicodemo, nel Vangelo, avvolto nella notte, si reca all’incontro con Gesù.
La ‘nube della non conoscenza’ e la ‘notte’, sono gli ambienti in cui si può e si deve parlare di Dio.
«Quando sappiamo di non conoscerlo e siamo in attesa di lui per poterlo conoscere, allora sappiamo realmente qualcosa di lui ed egli ci ha afferrati e conosciuti e ci possiede. Allora siamo credenti pur nella nostra incredulità ed egli ci accoglie nonostante la nostra separazione da lui» (P. Tillich).
Dio, è per sua natura indefinibile e inconoscibile. Eppure noi siamo riusciti a farne una questione intellettuale e ad identificare la fede con l’ortodossia (retto pensare).
Gesù non ha mai spiegato Dio, ma l’ha incarnato, con la sua vita, il suo modo di vivere, di amare, tanto da arrivare a dire ‘chi vede me vede il Padre’ (Gv 12, 45). Gesù è l’uomo che incarna in sé – e lascia trasparire – l’essenza stessa di Dio: l’amore. Per questo la fede non può che essere un’ortoprassi (retto agire).
Dire ‘Dio Trinità’, significa dire ‘comunione d’amore tra persone’. Per questo che affermare di credere e incontrare il Dio Trinità non può risolversi nella recita del Credo domenicale, ma piuttosto in ‘sedersi accanto all’uomo’.
Crede nel Dio Amore (Trinità) solo colui che crede fermamente nell’uomo, nella sua profonda bontà, nella sua inalienabile dignità, nella sua irriducibilità ad oggetto di consumo.
«‘Solo chi conosce l’uomo può conoscere Dio’, e non il contrario, come tante volte si è venuti dicendo. L’uomo è la via di Dio, il quale passa attraverso di lui e lo precede» (G.L. Salas).
Abbraccerà il Dio trinitario non colui che lo penserà in maniera retta, ma chi abbraccerà il povero, darà il pane all’affamato e accoglierà il profugo in casa sua, come Abramo che accogliendo nella sua tenda i tre pellegrini ha accolto il suo Signore alle querce di Mamre (cfr. Gn 18).
La dottrina insegnataci è che Dio è unità di tre persone, ma Gesù c’insegna anche che ‘la verità ci farà liberi’ (cfr. Gv 8, 32). Ora sappiamo che una dottrina è vera solo a condizione che si incarni in un credente adulto capace di liberare l’umano dalle catene dei condizionamenti di sofferenza e di morte, aprendosi così ad una felicità senza fine.
«La conoscenza di Dio, secondo la Bibbia, è per equivalenza, genesi dell’uomo. Diventare davvero uomo e conoscere Dio sono una sola e medesima operazione. Conoscere Dio e vivere la vita umana coincidono» (P. Ganne).