«Disse loro anche una parabola: «Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? 40Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro. 41Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? 42Come puoi dire al tuo fratello: «Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio», mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello. 43Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d’altronde albero cattivo che produca un frutto buono. 44Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dagli spini, né si vendemmia uva da un rovo. 45L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda». (Lc 6, 39-45)
«Ogni albero si riconosce dal suo frutto» (v. 44).
Il fare rivela il cuore. Non solo, lo rivela anche il nostro dire: «La bocca esprime ciò che dal cuore sovrabbonda» (Mt 12, 34).
Il cuore è l’albero da cui scaturisce il frutto che siamo. Il moralismo ti chiederà sempre di essere buono e di evitare il male attraverso un atto di volontà, ma la questione è il cuore. Occorre lavorare sulle radici, perché la vita possa nascere e crescere in modo naturale.
Ora, su quale terreno siamo piantati? A quale humus stiamo attingendo?
«Lo chiederemo agli alberi / Come restare immobili / Fra temporali e fulmini / Invincibili.
Risponderanno gli alberi / Che le radici sono qui. / E i loro rami danzano / All’unisono verso un cielo blu» (Simone Cristicchi).
Il vangelo ci ricorda che l’albero buono per eccellenza è la croce, che ha dato il suo frutto più buono, Cristo. La croce è segno dell’amore che sa andare fino alla fine. Occorre essere radicati nel più profondo di noi stessi, attingere alla propria sorgente interiore, quell’Amore che alcuni chiamano Dio e che riposa nel nostro intimo più profondo.
Occorre vivere come le radici degli alberi avendo il coraggio di riposare nella solitudine, nel silenzio e nel buio della propria terra interiore. E stare, stare.
Ma noi facilmente siamo sradicati; ci manca questo contatto silenzioso con noi stessi, siamo sempre altrove. Lontano da noi stessi. «Potresti essere lontano dalla tua vita. Come sempre, vero?» (Ch. Bobin).
Ed è bellissimo che questo vangelo apra alla fecondità indipendentemente dal tipo di albero di cui è espressione. Non è esclusiva dell’essere religioso, credente, cristiano di dare frutti buoni. Ciò che conta è il frutto, è il bene, l’amore seminato, la vita condivisa.
Una coppia irregolare, un amore ‘diverso’, un senza Dio, cesseranno così di essere ‘alberi cattivi’ alla prova dei fatti, per quell’amore che sapranno donare e donarsi, e se questo sarà capace di trasformare, rendere più bella e far sbocciare una vita, significa che quell’albero è senz’altro buono, con radici profondissime, attingendo finanche al cielo di Dio.
Ma occorre stare attenti, perché può succedere il contrario, ossia ritenersi alberi buoni solo perché appartenenti alla foresta della consuetudine religiosa, cresciuti al sole delle pie pratiche di pietà, per poi scoprirsi elargitori di frutti acerbi, cattivi e velenosi. Allora si aprirà gli occhi sulla propria verità, ritrovandosi magari a sera costituiti solo di spine e di rovi. Ma sarà una grazia, perché una volta presa coscienza di essere fatti di spine, siamo finalmente pronti ad essere messi come corona in testa al Cristo crocifisso (Mt 15, 17), realizzando così il detto di Isaia: «Sarai una magnifica corona nella mano del Signore, un diadema regale nella palma del tuo Dio» (Is 62, 3). Ed essere così guariti dalla nostra presunzione, candendo in un abbraccio di amore lasciandosi accarezzare da una misericordia che rigenera e manda avanti la vita.