Mc 4, 26-34
Ieri sera sono tornato a teatro dopo una lunga assenza. È andata in scena ‘La vita davanti a sé’, tratto dall’omonimo e splendido libro di Romain Gary. Un Silvio Orlando in stato di grazia è il piccolo Momo, figlio di una prostituta lasciato alle cure di una vecchia ebrea reduce da Auschwitz, la quale si occupa di crescere i figli di prostitute che la legge non permette di tenere con sé.
Momo, arabo, racconta dal suo punto di vista di bambino il dramma dell’abbandono, la fatica di vivere con una donna anziana che perde la memoria in un corpo sempre più provato, il vivere in un palazzo che è un microcosmo di povera umanità nella banlieue di Belleville, alla periferia di una Parigi degli anni ‘70 del secolo scorso.
Qui Momo pian piano impara che l’antidoto a quell’atmosfera di ‘pesanteur’ – per dirla con la Weil – può risiedere unicamente nell’accudire un cane, e poi darlo via ‘gratis’ perché quello è il suo vero bene; nell’aiutare la vecchia donna a vivere sprazzi di lucidità, a superare i momenti di terrore quando il ricordo del ‘male assoluto’ fa capolino negli incubi notturni; aiutarla a fare quei sei piani infernali senza ascensore; a non permettere che venga portata a morire in un anonimo ospedale nascondendola nel suo ‘rifugio ebreo’ nei sotterranei del palazzo.
Alla fine, dopo un’ora e mezza di monologo, Silvio Orlando, incarnando l’unica grande verità che è data all’uomo poter far propria, solo nel centro del palco, in un clima di sospensione, pronuncia le parole finali del libro di Gary: ‘Bisogna voler bene’.
È questo in fondo il nocciolo del vangelo; dell’avventura dell’uomo Gesù di Nazareth, del suo messaggio, dei suoi gesti. Del cristianesimo. Dell’umana avventura.
Sì, l’unica cosa veramente umana è voler bene. E questo bene porlo nel terreno della storia come un seme, e poi attendere nella ferma speranza che alla fine il frutto si compirà, coi suoi tempi, probabilmente molto lunghi perché solo il male ha tempi rapidi per affermarsi. Un albero impiega anni e anni per crescere. Basta un attimo per abbatterlo.
Il contadino sa che il lavoro fatto in autunno porterà frutto solo dopo un inverno rigido e buio, e nel frattempo sa anche di non dovere far niente; tornasse su quel campo rovinerebbe tutto. A volte il non fare è ciò che di più grande e produttivo si possa compiere.
Nella vita spirituale – come nell’arte – quanto meno si opera maggiormente si crea.
Il bene ha un modo tutto suo per divenire fecondo. Laddove per il mondo vi solo morte e sconfitta, il seminatore di bene intravede già lo stelo di grano che rompe il terreno e pregusta la fragranza del pane che se n’otterrà.
«Dorma… di notte…» (v. 27), è il richiamo alla morte di Gesù. Lui, seminatore di bene è il seme che è stato gettato nel campo del mondo. E mentre per tutti era lo sconfitto richiuso in un sepolcro, il Vivente impregnava già di energia nuova la storia degli umani e dell’intera creazione.