Mt 20, 1-16
Il ‘padrone di casa’ esce alle cinque del pomeriggio per chiamare gli operai da mandare a lavorare nella sua vigna. Il lavoro nei campi terminava però alle quattro. Ma perché anche i casi disperati, quelli che ‘nessuno ha mai preso a giornata’ (v. 7), quelli da sempre considerati ‘perduti’, i falliti, i non idonei, gli irregolari potessero entrare nella ‘sua vigna’, lui esce anche dopo il tempo massimo. L’amore non può rassegnarsi che vi siano figli ‘disoccupati’, perché l’unica occupazione degna dell’uomo è esperire l’amore e portare frutto. Sì, portare frutto, sbocciare alla pienezza di sé, questo è il sogno dell’amore: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?” (v. 6b).
E poi, a sera, giunge il momento della resa dei conti. Tutti vengono ‘pagati’ con la stessa moneta: un denaro, la paga di un operaio per un giorno di lavoro.
Ma alcuni – i primi – si lamentano del trattamento del padrone di casa. E noi sappiamo che tutto il Vangelo è scritto per smontare la logica dei ‘primi della classe’, dei buoni, dei meritevoli, dei giusti, di quelli che sono convinti che più si sbattono per il loro piccolo dio, più questi penserà loro ricompensandoli.
I primi ‘pensarono che avrebbero ricevuto di più’ (v. 10a). Ma – fortunatamente – “i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie” dice il Signore (Is 55, 8 – Prima lettura di oggi).
Nel mondo di Dio non è questione di più o di meno, di merito o di colpa, di buoni o cattivi, ma solo di dono e di accoglienza. Se il malvagio si apre all’amore, è salvo anche lui.
Il Vangelo di oggi mi ricorda che ciò che conta è ricevere il Signore che esce continuamente verso di me, anche fuori tempo massimo, ossia quando mi dico che ‘ormai tutto è inutile’.
C’è un amore che mi avvolge in ogni situazione della mia esistenza, per quanto uomo dell’ultima ora possa essere.
Dovremmo imparare che anche nell’ora più difficile è l’Amore che si mette alla ricerca di chiunque si sia perduto, e trovatolo dona sé stesso, la sua vita, simboleggiata qui da quel denaro che per forza di cose è uguale per tutti, perché Dio non può donare meno che sé stesso. Tutto il resto non conta! Non è il nostro fare, il nostro merito, la nostra purezza che attira la benevolenza di Dio.
Il dramma della nostra religiosità malata è pensare che alcuni questa vita di Dio ‘se la meritino’ un po’ di più. Peccato che alla fine proprio questi ‘puri e duri’ della religione sono anche quelli che reputeranno cattivo Dio perché troppo buono con gli ultimi.
Dio non ci ama perché buoni ma perché non ne può fare a meno. Siamo della sua stessa sostanza.
«I primi saranno gli ultimi» (v. 16). Questo non è un castigo, ma piuttosto una benedizione: una volta rimandati in fondo alla classe, ci troviamo – finalmente – in quella situazione privilegiata per poter accogliere e quindi fare esperienza dell’amore di un Dio che viene a cercare, prendere per mano e riportare a casa ‘ciò che era perduto’ (cfr. Lc 19, 10).