Il tentativo di riflessione sul dolore umano. Perfettamente riuscito, perché uno dei rari testi in cui parlare del dolore non risulta stucchevole e ridondante. O semplicemente inutile.
L’autore è C.S. Lewis – autore tra gli altri de ‘Le cronache di Narnia’ – che nel 1961 lo pubblicò con il titolo “Osservando un sepolcro”, e tradotto in italiano nel 1990 dall’Adelphi. Si tratta di brevi riflessioni autobiografiche suscitate nel suo animo dalla morte della moglie Joy Davidman Gresham, che aveva sposato quattro anni prima e con la quale aveva avuto due figli.
Un piccolo gioiello (85 pagine), in grado di parlare al cuore di tutti coloro che in qualche modo son stati attraversati nella carne da un dolore.
“Lewis è un cristiano, ma un cristiano duro, nemico di ogni facile consolazione. E ciò apparirà immediatamente in questo libro perfetto, dove l’urto della morte è subìto in tutta la sua violenza, fino a scuotere ogni fede. Non c’è traccia di compiacimento o di compatimento per se stessi. C’è invece un’osservazione lucida, che registra le sensazioni, i movimenti dell’animo che appartengono al segreto di ciascuno di noi – e che spesso non vogliamo riconoscere” (dalla quarta di copertina).
«Parlatemi della verità della religione e ascolterò con gioia. Parlatemi del dovere della religione e ascolterò con umiltà. Ma non venite a parlarmi delle consolazioni della religione, o sospetterò che non capite. A meno, naturalmente, di non prendere per buone tutte quelle storie di ricongiungimenti “sull’altra riva”, dipinti in termini affatto terreni. Ma sono cose che non hanno nulla a che fare con le Scritture, cose derivate da inni e litografie dozzinali. Nella Bibbia non ce n’è traccia. E poi suonano false. Lo sappiamo che non può essere così. La realtà non si ripete. Ciò che viene tolto e ciò che viene ridato non sono mai la stessa identica cosa. Com’è astuta l’esca degli occultisti! “Qui da noi le cose non sono poi tanto diverse”. Sigari in Paradiso. Perché è questo che vorremmo tutti: riavere indietro il passato felice».
«Non la mia idea di Dio, ma Dio. Non la mia idea di H., ma H. Sì, e anche non la mia idea del mio prossimo, ma il mio prossimo. Forse che non facciamo spesso questo errore con chi è ancora vivo, con chi è accanto a noi nella stessa stanza? Rivolgendo le nostre parole e le nostre azioni non all’uomo vero ma al ritratto, al riassunto, quasi, che ne abbiamo fatto nella nostra mente? E bisogna che lui se ne discosti in modo radicale perché noi arriviamo ad accorgercene. Nella vita reale (è una delle differenze tra la vita e i romanzi) le sue parole e le sue azioni, a osservarle bene, non sono quasi mai “in carattere”, ossia, non rientrano in ciò che chiamiamo il suo personaggio. Nella sua mano c’è sempre una carta di cui non sapevamo nulla.
Ciò che mi fa supporre di comportarmi in questo modo con gli altri è il vedere quante volte gli altri si comportano palesemente in questo modo con me. Ci illudiamo tutti di conoscerci l’un l’altro a menadito».
Un bellissimo post con un finale decisamente “pirandelliano”; a me ha ricordato un brano di “uno, nessuno e centomila” che ho ritrovato e qui condivido:
“L’idea che gli altri vedevano in me uno che non ero io quale mi conoscevo; uno che essi soltanto potevano conoscere guardandomi da fuori con occhi che non erano i miei e che mi davano un aspetto destinato a restarmi sempre estraneo, pur essendo in me, pur essendo il mio per loro (un “mio” dunque che non era per me!); una vita nella quale, pur essendo la mia per loro, io non potevo penetrare, quest’idea non mi diede più requie”.
( e in effetti è proprio un’idea che non dà requie…..)