«È un po’ così essere innamorati. Vuotarsi le tasche. Perdere il proprio nome. Scoprire, rapiti, la certezza di non essere nulla. […] Solo l’amore dà un senso alla mia vita, rendendola insensata a se stessa. Che cosa dire di più: la mia vita mi sfugge. Non mi raggiunge che in mia assenza. […] La mia vita fiorisce lontano da me.
«Che cosa le dà la vita?». La risposta è facile: tutto. Tutto ciò che non è me e mi illumina. Tutto ciò che ignoro e che aspetto. L’attesa è un fiore semplice. Germoglia sui bordi del tempo. È un fiore povero che guarisce tutti i mali. Il tempo dell’attesa è un tempo di liberazione. Essa opera in noi a nostra insaputa. Ci chiede soltanto di lasciarla fare, per il tempo che ci vuole, per le notti di cui ha bisogno. La nostra attesa viene sempre soddisfatta di sorpresa. Come se quello che speravamo fosse sempre insperato. Come se la vera formula dell’attendere fosse questa: non prevedere niente, se non l’imprevedibile. Non aspettare niente, se non l’inatteso» (Ch. Bobin, Elegio del nulla).
Christian Bobin (1951) è un poeta e scrittore francese. In italiano sono tradotti ormai moltissimi suoi lavori. In questo bel passo, ripreso dal piccolo ma intenso Elogio del nulla, Bobin recupera una delle verità profonde di ogni spiritualità: non prevedere niente, se non l’imprevedibile. Non attendere nulla se non l’insperato. È ciò che Simone Weil definisce come ‘attesa senza oggetto’. Finché attendiamo ciò che crediamo di conoscere, ci raggiungeranno solo fantasmi. L’attesa deve essere vuota, gratuita, non dettata dalla richiesta, ma di ciò che vuole giungere. Attesa dell’imprevedibile. Sì, l’attesa senza oggetto è apertura all’imprevedibilità. Non attendo ciò che desidero, ma ciò che credo sia bene per me.
Se il viaggiatore s’attendesse di scoprire solo ciò che conosce, non godrebbe mai della scoperta ma farebbe mero turismo intorno a cose già note. Con la triste scomparsa degli esploratori.