Mi ha sempre impressionato la splendida ‘predica sulla perfetta letizia’ di san Francesco, riportata nei Fioretti e qui di seguito riscritta da Angelo Branduardi come testo di una sua canzone contenuta nel disco ‘Infinitamente piccolo’
“Era il tempo dell’Inverno ormai
E Francesco Perugia lasciò.
Con Leone camminava
Ed un vento freddo li gelava.
E Francesco nel silenzio
Alle spalle di Leone chiamò:
“Può essere santa la tua vita,
sappi che non è letizia,
puoi sanare i ciechi e cacciare i demoni
dare vita ai morti e parole ai muti,
puoi sapere il corso delle stelle,
sappi che non è letizia.
Quando a Santa Maria si arriverà
E la porta non si aprirà,
tormentati dalla fame,
nella pioggia a bagnarci staremo,
sopportare il male senza mormorare,
con pazienza e gioia saper sopportare.
Aver vinto su te stesso
Sappi, questa è letizia”
La perfetta letizia (gioia perfetta o la libertà perfetta), non sta nella positività della vita.
Non deriva dal costatare che le cose della vita vanno bene, ma nella negatività ‘assunta’ con amore, nell’accogliere con spirito di positività le avversità, e ogni tipo di violenza che distrugge le proprie convinzioni, le proprie idee, la propria presunzione.
Questa gioia perfetta o libertà assoluta, scaturisce da un amore così intenso che non solo sopporta, ma abbraccia allegramente la stessa negatività.
È ciò che Edith Stein definì con contemplazione: ‘l’intelligenza che matura sino all’amore, tanto da poter scorgere il bene nel male’. Ella arriverà ad abbracciare il fuoco di Auschwitz che la ucciderà, contemplandovi all’interno Dio stesso all’opera.
L’uomo che giunge a questo punto, è l’uomo che può essere definito autenticamente libero, poiché niente potrà mai minacciarlo. È l’uomo totalmente padrone di sé, trovandosi di fatto in una situazione tale che non è scosso né dal bene né dal male. È l’uomo inalterabile.
Va da sé che la questione fondamentale della vita, non sarà tanto ciò che viviamo, se bello o brutto, buono o cattivo. Se ragioniamo in questo modo, noi siamo ancora schiavi di noi stessi: accettiamo/amiamo ciò che ci piace, rifiutiamo/odiamo ciò che non ci piace. Accettiamo il bene, evitiamo il male. Ma il problema vero non sta ancora a questo livello, per questo che dobbiamo continuamente crescere come esseri umani e, per chi ha fede, diventare adulti nella fede. Il problema di fondo riguarda ciò che noi chiamiamo desiderio.
Noi ci muoviamo nel mondo desiderando il bene, ossia che le cose vadano come abbiamo immaginato, secondo la nostra percezione di bene, e di contro, desideriamo evitare il male, ossia di ammalarci, di essere odiati, di essere traditi, ecc.
Desideriamo insomma la vita senza negazione, una libertà sempre attuale, una felicità senza limiti, relazioni senza ombre. Infatti la struttura fondamentale del desiderio è l’onnipotenza: non si vuole questo o quello, si vuole tutto!
Ma la realtà – in quanto realtà – ci impone dei limiti. La realtà è limitata, per questo che l’onnipotenza, nella realtà, viene sempre negata. Per questo ci confrontiamo continuamente con frustrazioni e rinunce che obbligano il desiderio all’accettazione, ma proprio per questo si apre di fatto la porta a possibili ascensioni.
Sarà perciò segno di maturità umana – e di fede – sapere integrare il trauma della morte e delle morti, delle frustrazioni e delle rinunce nell’ordito della vita. La morte verrà detronizzata dal suo status di signora della vita e di ultima parola. In questo modo l’eros – desiderio forte e irrinunciabile di vita – trionferà su thanatos. Ma c’è un prezzo da pagare per questa immortalità: l’accettazione della mortalità della vita. La vita, per essere tale, deve poter essere mortale.
Accettare di morire, frustrare il desiderio empirico e superficiale che vuole vivere eternamente, è condizione perché il desiderio raggiunga la sua verità di vivere eternamente e così trionfare in modo completo. In Francesco questo fu raggiunto in maniera massima.
Nel momento della morte, Francesco fece aggiungere l’ultima strofa del Cantico delle creature: «Laudato si’ mi’Signore, per sora nostra morte corporale…».
La morte per Francesco cessa di essere nemica della vita e si dimostra come passaggio da questo tipo di vita all’altra forma di vita nuova e definitiva – in Dio – perciò immortale e piena.
Francesco è l’uomo che è riuscito ad integrare in maniera altissima il tutto in una unità vitale; nella sua vita fece posto – cortesemente – anche alla morte, divenendo compagna di vita e sorella di viaggio.
Ma cosa significa di fatto, far posto alla morte nella propria vita? Significa accogliere la morte in tutte le sue declinazioni, come, ad esempio, i limiti, gli acciacchi, l’ignoranza, la fragilità fisica e spirituale, le infermità. Per questo Francesco si dimostrava profondamente tollerante con la debolezza umana, propria ed altrui.
La vita non accade nel modo in cui abbiamo scelto, ci viene imposta. La libertà, in quanto tale, è limitata. Noi non facciamo ciò che vogliamo, ma solo ciò che ci è permesso e concesso di momento in momento. La vita ci accade addosso, nella sua uni totalità, col suo bene e il suo male. La questione non è tanto desiderare come possano accadere le cose, perché il desiderio è sempre fonte di frustrazione dato che le cose accadono comunque e il novantanove per cento dei casi diversamente da come le abbiamo desiderate, ma come affrontiamo le cose che accadono. «Lo sguardo sulla vita cambia se comprendiamo che in essa non contano solo i fatti belli o tragici, conta la risposta che sappiamo dare a ciò che accade» (R. Mancini).
Per questo bisogna stare attenti a definire la libertà: essa non coincide con la spontaneità.
La nostra libertà si realizza sempre all’interno di piccoli spazi concessici dalla storia. Occorre essere molto maturi per accettare con serenità e distacco interiore quelle realtà che, oggettivamente, non possiamo modificare. Come essere liberi dunque di fronte a ciò che ci capita senza averlo scelto? Accettandolo con serenità e integrandolo nel proprio cammino. Qui si rivela l’uomo libero. È ciò che gli antichi chiamavano amor fati, l’amore dell’inevitabile, abbracciato senza amarezza e senza servilismo.
Diventeremo noi stessi a seconda della risposta che diamo agli eventi che succedono, se ne diventiamo in qualche modo responsabili dal momento che ci pro-vocano, mettendo in campo tutte le energie positive, luminose che ci portiamo dentro, capaci di trasfigurare il presente: la libertà, il desiderio, l’intelligenza, la fiducia, la speranza, la capacità di volere e di fare il bene.
In questo modo la vita anche se ‘accade’, non ci sovrasta, perché può diventare occasione di rinascita, in un’assunzione di responsabilità.
Siamo in continua rinascita, e la vita è una continua ricreazione. E noi contribuiamo a questa nostra ri-creazione, mettendo in campo le nostre potenzialità positive, quando contrastiamo il male con il bene, la menzogna con la verità, la disonestà con l’onestà.
Impegnarsi a nascere veramente vuol dir partorire in noi stessi un modo d’essere che trasforma in amore creativo sia gli impulsi interiori, sia gli effetti su di noi degli eventi esterni, positivi o negativi che siano.
Condivido pienamente con il pensiero, ma ahimè quanto è difficile “far posto alla morte nella propria vita”! Mi è di aiuto, spero, sentirlo ribadire con tanta forza e poesia da chi, come san Francesco e come te, reputo autentici cristiani che cercano di vivere il vangelo. Grazie, don Paolo!
Grazie per questo messaggio di rinascita, di speranza, di senso della vita. Avere sempre presente a se stessi che qualunque cosa accada è possibile agire per il bene e “deviare” gli eventi negativi comprendendo così “il senso del non senso”…Comprendere il significato del dolore tramutandolo in amore può “trasformare” l’esistenza!